Diritto islamico: le fonti

Diritto islamico: le fonti

Quando si parla di diritto islamico il primo termine da definire è quello di Shariʿah ( شريعة.)  Letteralmente significa “via”, “cammino verso la fonte” e nel Corano si trova la radice del termine utilizzato per esprimere il fatto che nel corso della storia ogni religione ha ricevuto la sua “via”: A ciascuno abbiamo dato una via ed una prassi (un metodo, una metodologia).

Il secondo termine da definire è quello di fiqh. Letteralmente la parola vuol dire “comprensione profonda”. Il lavoro di elaborazione del diritto si fa a partire da una lettura normativa delle fonti al fine di estrarne le prescrizioni giuridiche e di permetterne la classificazione. Quindi, fiqh indica il diritto islamico nel suo complesso. Fiqh (da cui deriva il nome dei giurisperiti: fuqahāʾ) può essere tradotto con il termine di giurisprudenza coranica.

La sharīʿa  può essere interpretata sotto due sfere, una più metafisica e un’altra pragmatica. Nel significato metafisico, la sharīʿah è la Legge di Dio e, in quanto tale, rimane sconosciuta agli uomini. In chiave pragmatica, il fiqh, la scienza giurisprudenziale islamica interpretata secondo la legge sacra, rappresenta lo sforzo concreto esercitato per identificare la Legge di Dio; in tal senso, la letteratura legale prodotta dai giuristi (faqīh, plurale: fuqahāʾ) costituisce opera di fiqh, non di sharīʿa. Va sottolineato il tentativo, praticato in alcuni paesi a maggioranza islamica (Iran e Arabia Saudita), di intendere la shari’a come codice di leggi non comportamentali o consuetudinarie, ma come norme di diritto positivo. La stessa shari’a distingue peraltro le norme riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura più squisitamente giuridica.

Lo storico Ibn Khaldun definisce il fiqh come la “conoscenza dei comandamenti di Dio che concernono le azioni, qualificate come wājib (obbligatorie), ḥarām (vietate), mandūb (raccomandate), makrūḥ (disapprovate) o mubāḥ (indifferenti)”

Il giurista in senso occidentale non esiste per il diritto islamico, la figura dell’alim (pl. Ulama) identifica il teologo-giurista esperto di fiqh. Naturalmente non esistono negli stati islamici facoltà di giurisprudenza simili a quelle occidentali.

Il fiqh si applica a due campi essenziali: il campo del culto e della pratica (al-ibadat) ed il campo degli affari sociali in senso ampio (al-mu’amalat). E’ fondamentale capire che, se questi due campi si fondano entrambi sulle fonti scritte, è stata stabilita una metodologia diversa per ciascuno di loro: nel campo del culto le prescrizioni sono molto spesso chiare e precise ed il musulmano deve attenersi alla lettera ai testi. In questo campo che riguarda la preghiera, la zakah, il digiuno ed il pellegrinaggio, gli è consentito fare solo quello che si basa sull’autorità di un testo.

Avviene tutt’altra cosa nella sfera degli affari sociali, la cui metodologia è improntata ad una logica diversa: cioè, negli affari sociali il campo del possibile è aperto, tanto che non si ha un testo che proibisce di agire in un dato modo. Contrariamente al culto, il principio fondamentale qui è il permesso. Potremmo dire che tutto è permesso salvo quello che è esplicitamente proibito.

Le fonti del diritto islamico

Come fonte giuridica, il Corano offre poco materiale.  Dei 6237 versetti che lo compongono, circa il dieci per cento si riferisce a temi giuridici in senso lato. Maometto aveva risolto casi concreti o espresso opinioni che potevano contribuire a colmare in modo autentico le lacune del Corano. Una “tradizione” deve essere un racconto tramandato da una catena ininterrotta di narratori attendibili e avente per oggetto un comportamento di Maometto, il cui agire è ispirato da Dio. Come è facile immaginare, nel mondo islamico non esiste un’opinione unitaria e concorde su quali hadith siano da ritenere attendibili: una collezione di hadith del IX secolo ne elenca 300.000, di cui soltanto 8000 ritenuti autentici.

Nel IX secolo vennero preparate raccolte di hadith che riferivano i comportamenti, i detti e anche i silenzi del Profeta, da cui si potevano desumere regole di comportamento non epresse dal Corano. Corano e sunna, interpretati anche secondo tecniche minuziose, lasciavano però ancora qualche problema insoluto, né i pareri degli ulema avevano forza sufficiente ad integrare la parola di Dio. Tuttavia una tradizione della sunna afferma che, se la comunità dei giuristi- teologi dà il suo consenso generale ad una teoria, questa non può essere errata. Questo consenso (ijma) non è facile da definire. Di fatto, l’ijma è intesa come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente grande e il loro parere chiaramente formulato.

L‘interpretazione analogica (“qiyas”)

Questa fonte è specificamente giuridica, nel senso che l’uso dell’analogia – strumento indiscusso in teologia – fu oggetto di gravi controversie nella soluzione di casi giudiziari, perché si riteneva empio usare la ragione umana per colmare un’apparente lacuna divina.

Ecco un esempio: si riconobbe alla donna, vittima di un reato, un’indennizzo pari alla metà di quello che sarebbe spettato ad un uomo, perché all’uomo spetta un’eredità doppia che alla donna.L’analogia era un apporto esterno all’islam. Essa penetrò nel pensiero islamico attraverso le conquiste dei paesi di cultura irano-ellenistica e fiorì sotto la dinastia degli Abbàsidi (nel 700-800 d.C.). E’ sotto questa dinastia che il diritto islamico assunse la sua forma odierna e in essa si cristallizò. Con il passaggio della capitale imperiale da Damasco a Bagdad, il travaso culturale tra conquistatori e conquistati si attuò decisamente.

E’ a questo punto che elementi del pensiero greco vennero inglobati nel ragionamento giuiridico-teologico dell’islam, così come norme giustinianee ed ebraiche vennero inglobate nel suo diritto. Poi, alla fine della dinastia abbàside nel 935 d.C., i regionalismi si fecero più forti; ma il diritto sacro, il fikh, si era ormai pietrificato come una colata di lava al termine del suo corso.L’estensione delle conquiste islamiche islamiche e il perdurare di grandi stati islamici fino al secolo XIX rendeva indispensabile integrare di fatto il sistema classico delle fonti con altri strumenti, legati a una più sviluppata attività legislativa e giudiziaria, ovvero a particolari tradizioni locali. Va ricordato, però, che le fonti non canoniche non fanno parte delle fonti classiche islamiche appena sopra elencate.

La consuetudine (“urf”)

Bisogna distinguere i paesi islamici retti da un diritto consuetudinario non islamico (come l’Indonesia) e i paesi di diritto islamico in cui la consuetudine (urf) sembra essere esclusa dalle fonti del diritto. L’urf, tuttavia, ha una sua esistenza non ufficiale, legata a situazioni anteriori all’islamizzazione di un certo territorio, e contribuisce a integrare il diritto islamico. Una consuetudine locale, ad esempio, può stabilire il termine entro cui deve essere pagata la dote.

Le decisioni giudiziarie

Anch’esse tendono ad integrare questo diritto: i malikiti seguivano le pronunce di Medina, gli hanbaliti e hanafiti quelle irachene e gli shafiiti quelle della Mecca. Infatti la fuga di Maometto a Medina divide il suo insegnamento in due parti.

Il decreto del sovrano (“qanun”)

L’assestamento dell’impero islamico e, in seguito, la formazione di parlamenti generarono come ultima fonte il decreto del sovrano del singolo paese, introducendo così una duplice giurisdizione: mentre il cadi, giudice monocratico religioso, continuò ad applicare la legge sacra, i tribunali laici applicarono il qanun.

Il pubblico interesse (“maslaba”)

Sempre in tempi recenti, si fece ricorso al concetto di pubblico interesse, inteso in senso lato. In Tunisia, ad esempio, si introdusse un limite alla poligamia sottolineando che un uomo non può comportarsi in modo eguale verso tutte le mogli e che questa ineguaglianza di trattamento (soprattutto economico), oltre a essere contraria al dettame coranico, è contraria anche al pubblico interesse. Dopo la morte di Maometto sorsero dissensi politici e teologici anche violenti sul modo di interpretare il Corano e di provvedere allo stato musulmano. Nel corso di lotte durate fino al IX secolo, il movimento islamico si divise in varie sette, le principali delle quali sono ancora le seguenti due: i sunniti, così chiamati perché si proclamano seguaci della sunna, sono i più numerosi; e gli sciiti, che si oppongono ai sunniti per antichi dissensi sulla successione del Profeta e, in tempi più recenti, anche per ragioni ideologiche.

A queste principali sette (che subirono numerosi scismi interni), ne vanno aggiunte parecchie altre minori. Pur partendo da un nucleo comune, tutte hanno elaborato un loro fiqh, cioè un loro sistema teologico-giuridico. Limitiamoci alle scuole dei sunniti.

Nel corso dell’assestamento del diritto islamico sotto la dinastia abbàside nell’VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le estensioni analogiche del diritto sacro venissero incanalate in un’unica direzione: nacquero così quattro scuole ortodosse e numerose scuole eretiche. Ancor oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole o riti, spesso presenti in varia proporzione nella medesima nazione. Il diritto islamico non è quindi unitario.

Per le scuole giuridiche vedi:

Il diritto islamico: le scuole giuridiche

Bibliografia

  • F. Castro, Lineamenti di storia del diritto musulmano, 2 volumi, Venezia, Coop. Libraria Editr. Cafoscarina, Università di Ca’ Foscari, 1979.
  • A. Cilardo, Teorie sulle origini del diritto islamico, Roma, IPO, 1990.
  • R. Potz, “Islamic Law and the Transfer of European Law”, European History Online, Magonza: Institute of European History, 2011, consultato in data 1º marzo 2013.
  • J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Torino, Fondazione Agnelli, 1995, p. 121 *Idem, An Introduction to Islamic Law, Oxford, OUP, 1955, traduz. dall’inglese a cura di G. M. Piccinelli.
  • D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano mālichita con riguardo anche al sistema sciafiita, Roma, IPO, 1926, 2 voll.
  • E. Tyan, L’organisation judiciaire en pays d’Islam, Leiden, E.J. Brill, 1960.
  • N. J. Coulson, A History of Islamic Law, Edinburgh 1964. (traduz. francese: Histoire du Droit Musulman, Paris, 1995).

 

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