Sommario di Filosofia del diritto

Sommario di Filosofia del diritto

L’espressione «filosofia del diritto» ha visto la luce per la prima volta nel 1821 con la pubblicazione dell’opera hegeliana Grundlinien der Philosophie des Rechts (Lineamenti di filosofia del diritto), raggiungendo il successo, fra il 1841 e 1845, anche come disciplina universitaria a sé, attraverso l’opera in due volumi di Antonio Rosmini che, appunto, porta il titolo di Filosofia del diritto. Cionondimeno, come nota lo studioso Guido Fassò nella premessa alla sua Storia della filosofia del diritto, «fra gli aspetti dell’esperienza umana che fin dai tempi antichissimi hanno indotto a meditazione filosofica vi è senza dubbio il diritto». È necessario sottolineare, tuttavia, l’assurdità di una separazione fra «una filosofia che non sia la filosofia puramente e semplicemente» e, dunque, si deve concludere che di «una filosofia del diritto distinta dalla filosofia pura e semplice non si dovrebbe parlare», anche perché, come sostiene il Bobbio, una qualsiasi storia della filosofia del diritto si ridurrebbe a meri «elenchi di dottrine piuttosto eterogenee», i quali, per quanto disposti in ordine cronologico, non godranno mai di un ordine logico che la storia reale di tanti secoli non ha e non può avere.

La filosofia del diritto si occupa:

1) di indagare su “che cosa è” il diritto (compito ontologico: in relazione alla funzione, o inteso come comando, o come autorganizzazione di una collettività, o come studio dell’aspetto formale delle norme);

2) di indagare su “che cosa deve essere” il diritto (compito deontologico), cioè dei rapporti fra morale e diritto (es. problema della giustizia);

3) delle conseguenze del diritto (compito fenomenologico: problema dell’utilità o dannosità delle norme);

4) della metodologia (compito metodologico; es. il confronto fra i metodi del giurista puro e i metodi seguiti dalle scienze fisiche).

Il giurista positivo invece si accontenta di avere un punto di partenza che non discute, costituito dalle proposizioni normative emananti dal potere politico.

Dalla filosofia del diritto può essere distinta la teoria del diritto, la quale presuppone un ordinamento giuridico, ed elabora strumenti concettuali dalla sua struttura. In sostanza, la teoria del diritto è infrasistemica, ha un perimetro più limitato, analizza le strutture formali degli ordinamenti giuridici indipendentemente dai valori che li informano e dai loro concreti e variabili contenuti. Si occupa dunque di concetti e problemi quali la norma giuridica, l’obbligo, la generalità, l’astrattezza, la sanzione, la nomodinamica, l’interpretazione, l’applicazione, i piani dell’ordinamento giuridico, l’effettività, il collegamento fra le norme, la legittimità e razionalità del controllo di costituzionalità ecc. La teoria generale del diritto quale disciplina autonoma e sistematica è un prodotto del XX secolo.

Ebraismo (dal XX a.C.)

Presso il popolo ebreo l’idea di legge è al centro di tutta la vita religiosa, sociale e politica; la moralità coincide con l’osservanza stretta e letterale dei precetti della legge (cosiddetto legalismo). Tra il popolo di Israele e Dio è intercorso un patto in base al quale il popolo si obbliga all’obbedienza alla Legge divina ottenendone in cambio la conservazione, la prosperità e la salvezza.

La legge ebraica è comunicata da Dio a Mosè sul Sinai (1330 a.C. ca.), ed è costituita dai Dieci Comandamenti e articolata in un complesso codice di precetti di vita religiosa e sociale; il cui principio ispiratore, per quanto riguarda i rapporti intersoggettivi, è quello del contraccambio, o del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”. Il testo è l’Antico Testamento.

A fondamento della legge non sta la ragione, ma la volontà divina; il Dio ebraico non è inteso come Ragione, come sarà il Logos greco, la sua legge non è valida perché razionale, ma esclusivamente perché voluta da lui (volontarismo). La legge ebraica non ha carattere universale, è patrimonio privilegiato degli Ebrei, perché Dio ha scelto di annunciare la sua parola ad essi.

Grecia

Presocratici VIII-VI sec. a.C.

Il pensiero giuridico greco non è una disciplina autonoma, con teorici specializzati e monografie dedicate al diritto. Questioni come l’origine e il fondamento dello stato, la fonte dell’obbligo giuridico, il rapporto della legge con qualche modello superiore, si ricavano da opere letterarie o filosofiche.

Da Omero si apprende la primitiva concezione del diritto dei Greci: la legge come thèmis (giustizia), cioè come decreto di carattere sacrale rivelato ai re dagli dei per mezzo di sogni o di oracoli. È una concezione caratteristica di società a struttura aristocratica, nelle quali la legislazione è intesa come espressione di una volontà soprannaturale, ed è custodita da una classe superiore.

Con il passaggio da società patriarcali e guerriere a società agricole, alla legislazione di ispirazione divina subentra una legislazione umana: alla themis si sostituisce la díke, cioè la giustizia come prodotto della ragione e dell’esperienza umane. Nella dike predomina l’idea razionale dell’uguaglianza. Tale idea del diritto ispira già Esiodo (VIII a.C.): condanna e punizione della prepotenza, di chi vuole imporre con la forza la sua volontà.

All’epoca della formazione delle città (V a.C.) è con la parola nomos che viene indicato il diritto; rappresenta la legge della città (costituzione) ed è prodotto dai legislatori e dalle assemblee del popolo.

I presocratici  Eraclito, Talete, Pitagora, Parmenide (V a.C.) ed Empedocle si avvalgono dell’idea di dike anche nel campo che interesse loro in maniera prevalente, i problemi del mondo fisico, della natura (es., se il sole deviasse dal suo percorso interverrebbero le “ministre di Dike”; si trasferisce nell’universo fisico il concetto di ordine giuridico).

È interessante rilevare che Pitagora è il primo a sostenere la giustizia come proporzionalità, corrispondenza fra l’azione umana e la sua retribuzione: “il giusto assoluto è far subire la stessa cosa all’altro”.

Democrito (V a.C.) per primo introduce il concetto di diritto nella sua funzione tecnica di strumento di pacifica convivenza sociale: la legge serve a punire coloro che, non osservando spontaneamente il dettame della coscienza morale, recano danno agli altri. Primo accenno alla distinzione fra morale e diritto.

Sofocle (V a.C.) per primo evidenzia uno dei problemi fondamentali della filosofia del diritto, quello del rapporto tra le leggi positive istituite dallo Stato e le norme di condotta che l’individuo ritrova dentro di sé, le norme di “diritto naturale”. Nell’Antigone viene rappresentato il contrasto fra una legislazione superiore e quella umana: Antigone seppellisce il fratello Polinice a Tebe, nonostante il divieto imposto dall’editto del re di Tebe, Creonte, perché Polinice si è rivoltato con le armi contro la città; il principio intangibile invocato da Antigone è che i familiari sono tenuti a rendere ai loro morti l’onore della sepoltura. L’editto di un uomo non può soverchiare le leggi non scritte degli dei. Al di sopra delle leggi positive umane vi sono leggi dettate da una volontà divina [Faralli: Sofocle rappresenta la versione del giusnaturalismo che sarà definita volontaristica].

Il concetto di democrazia – La città-Stato greca comincia ad affermarsi nel VII secolo e raggiunge la sua piena attuazione nell’Atene del V secolo. Il suo ideale politico è la democrazia. Con tale termine non si intende sempre lo stesso concetto: ai primordi della dottrina politica greca (Erodoto) essa significa isonomia, uguaglianza delle leggi per tutti, dunque uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in particolare uguale possibilità di essere chiamati alle cariche pubbliche e uguale libertà di parola). Successivamente significherà potere assoluto e incontrollato del popolo contro l’oligarchia, i più ricchi.

I Sofisti (V a.C.)

Relativisti sia nel campo della conoscenza sia nel campo della morale (in ciò contrapposti a Socrate); “l’uomo è misura di tutte le cose” di Protagora è la formula classica del relativismo: non vi sono criteri oggettivi che preesistano all’uomo.

A parte il precedente letterario di Sofocle, la prima concezione giusnaturalistica si può far risalire ai Sofisti e fa riferimento alla natura considerata come qualcosa avente leggi e scopi suoi propri che l’uomo non può modificare e che anzi incombono su di lui. È stata definita prospettiva “biologico-naturalistica”. Tale versione del diritto naturale, comune a tutta l’antichità classica, concepisce il principio di condotta come esterno all’uomo. Questa natura intesa come universo fisico, e che per gli uomini è istinto (non la legge di natura che la ragione è in grado di scoprire del giusnaturalismo moderno), è la physis. La physis viene contrapposta al nomos, cioè si ritiene che esista un “giusto per natura” superiore al “giusto per legge”, basato sull’autorità dello Stato. Tuttavia i sofisti risolvono questo contrasto in modi differenti.

Dalla distinzione fra physis e nomos il sofista Callicle (nel Gorgia di Platone) giunge all’identificazione del diritto con la forza: se la natura mostra che il migliore prevale sul peggiore e il più capace sul meno capace, allora il criterio della giustizia è questo, il dominio e la supremazia del più dotato sul più debole. Per Callicle lo Stato e le leggi positive sono un mezzo utilizzato dai deboli e dai mediocri coalizzati insieme per neutralizzare ed avere la meglio su coloro che, superiori per natura, hanno giustamente il comando. Tali istituzioni e leggi, in quanto contrarie alla natura, sono ingiuste; sono solo espressione di invidia e gelosia [Faralli: Callicle rappresenta il giusnaturalismo naturalistico, che identifica la legge di natura con l’istinto, comune a tutti gli esseri animati].

In Trasimaco il potere è ridotto a mera forza, e persegue l’interesse di chi è riuscito ad accaparrarselo; il Diritto e la Giustizia in sé e per sé non hanno esistenza, non sono oggettivamente conoscibili, non hanno validità indipendentemente dal tempo; la giustizia è ciò che reca vantaggio al più forte.

Un orientamento maggiormente razionalistico ha il giusnaturalismo di Antifonte e Ippia. Per essi le leggi positive, prodotto artificiale degli uomini, spesso non corrispondono alle tendenze naturali dell’uomo: in particolare, le leggi sono un impedimento alla naturale tendenza dell’individuo a perseguire il proprio interesse. Mentre il modo migliore di vivere è proprio seguire la natura, perseguendo il proprio interesse anche in maniera incontrollata e antisociale.

Non è immorale la trasgressione delle norme giuridiche, che sono mere convenzioni; basta che non si venga colti sul fatto. Invece la violazione delle leggi di natura fa incorrere inevitabilmente in sanzioni (naturali); per natura si intende l’organismo dell’uomo, i suoi sensi, il piacere e il dolore; gli uomini orientano naturalmente il loro comportamento in direzione dell’utile; le leggi sospingono l’uomo verso obiettivi contrari al proprio piacere, ai propri obiettivi naturali, e dunque lo costringono ad un piacere minore di quanto sarebbe alla sua portata [Faralli: Ippia, Antifonte e Alcidamante rappresentano il giusnaturalismo razionalistico, che considera il diritto naturale come l’insieme dei principi di ragione, natura essenziale dell’uomo].

In alcuni Sofisti (Protagora, Antifonte, Licofrone, Crizia) vi sono accenni contrattualistici: lo Stato e le leggi nascono in seguito ad accordi fra gli individui. Al contrario di Aristotele, lo Stato non è qualcosa di naturale, ma di convenzionale, di artificiale; è reso necessario, utile, per il raggiungimento di determinati fini. In particolare per garantire la sicurezza; le leggi vengono fatte sulla base di una convenzione fra gli uomini perché ognuno si astenga dall’offendere un suo simile a condizione che il suo simile si astenga dall’offendere lui.

Socrate (V a.C.)

Esistono leggi non scritte poste dagli dei e leggi poste dallo Stato. Bisogna seguire sempre entrambi i tipi di leggi; anche le leggi dello Stato, non perché esse siano sempre intrinsecamente giuste, ma per un’esigenza etica assoluta, per principio, perché non deve prevalere mai il proprio interesse egoistico. Ogni individuo, rimanendo a vivere in una determinata città, ne ha implicitamente accettato le leggi (contratto tacito). È meglio subire ingiustizia piuttosto che compierla.

Platone (IV a.C.)

Nella Repubblica lo Stato delineato da Platone, come tutte le utopie, non ha bisogno delle leggi, perché i cittadini agiscono bene spontaneamente grazie all’opera educativa dello Stato.

Nel Politico e nelle Leggi viene riconosciuto il valore delle leggi: poiché il governo perfetto è irrealizzabile in questo mondo, bisogna accontentarsi di realizzare uno Stato che si avvicini a quello ideale, e ciò è possibile grazie alle leggi. Il diritto dunque è utile, ma non ha valore etico; esso non può cogliere la molteplicità delle situazioni umane, ciò che è meglio per ogni persona. Le forme di Stato governate dalle leggi sono le meno peggio. Nelle Leggi il diritto diventa anche strumento di educazione del popolo. [Kelly: Platone ha un’idea sovradimensionata della legge: essa non deve solo regolare alcune situazioni intersoggettive bensì coltivare la natura umana verso un ideale di perfezione.]

Aristotele (IV a.C.)

Etica Nicomachea: A. individua una delle caratteristiche della norma giuridica, la coercibilità. Per educare gli uomini al vivere bene occorrono regole che incorporino la minaccia di punizione ai disobbedienti. La legge è il mezzo per rendere praticamente efficaci i precetti razionali dell’etica.

Politica: la sovranità delle leggi garanzia di imparzialità e giustizia. Dove non sono sovrane le leggi, ma l’arbitrio dei governanti, non si ha vero e proprio Stato. Importanza della generalità delle norme; se lo sono c’è giustizia.

Quanto al contenuto delle leggi, quelle giuste sono quelle che perseguono l’interesse generale, il bene comune.

Carattere naturale della città-stato, in quanto realizza la perfezione del vivere bene in ambito sociale.

Età ellenistica (III-I a.C.)

Stoicismo

Zenone, Cleante, Crisippo, Panezio, Posidonio

Offrono il contributo più importante al giusnaturalismo antico. Tutta la natura è governata da uno spirito ordinatore (Logos, ragione); panteismo: la divinità è immanente al mondo, il logos è principio e essenza del mondo. Il logos si trova negli dei ma anche, una particella, nella mente degli uomini. L’universo, compreso l’uomo, è dunque regolato da una legge intrinseca, che ne fa coincidere essere e dover essere. L’uomo, in quanto parte del cosmo, vive secondo la legge di questo. [Quando gli stoici usano il termine Dio non intendono un dio personale e trascendente, esterno alla natura, come quello ebraico o cristiano, bensì un principio metafisico immanente all’universo, di carattere puramente filosofico.]

La conseguenza sul piano etico è che il sommo bene consiste nel vivere in modo conforme alla natura, che per gli stoici significa conforme alla ragione, facendo tacere le passioni e i sensi. Sul piano giuridico è la prima formulazione precisa del diritto naturale. Le leggi devono essere la traduzione in termini positivi della Ragione universale; in tal modo, ordinando ciò che si deve e non si deve fare, realizzano la giustizia. Esse devono essere redatte dai saggi, che hanno in sé più chiara la retta ragione.

Il panteismo stoico dissolve l’opposizione sofistica e aristotelica fra physis e nomos, fra natura e legge.

Circa la dottrina politica, Zenone sfocia in un utopismo platonico frutto dell’estremo razionalismo, che genera astrattezza.

Cosmopolitismo, incoraggiato dall’impero costruito da Alessandro Magno: appartenenza degli uomini ad un’unica patria, l’universo; ma tale uguaglianza è limitata ai saggi, non è estesa agli stolti, coloro che non vivono secondo ragione.

Stoicismo romano (I-II d.C.)

Cicerone (I a.C.), Seneca (I d.C.), Epitteto (I d.C.), Marco Aurelio (II d.C.)

Cicerone attinge prevalentemente alla dottrina della Media Stoa, ma la sua teoria è eclettica, accogliendo temi del platonismo e dell’aristotelismo. Nel terzo libro del De re publica (52 a.C.) Cicerone sostiene l’esistenza di una legge “vera”, conforme alla ragione, immutabile ed eterna, che non varia secondo i paesi e i tempi, presente in tutti gli uomini e individuabile attraverso la retta ragione, e che l’uomo non può violare se non rinnegando la propria natura umana. Questa legge è stata dettata da Dio (il Dio degli stoici è una forza astratta, una causa, una fonte, su cui non viene elaborata alcuna teologia organizzata; diverso dunque dal Dio ebraico-cristiano, Dio persona che trasmette fisicamente i suoi comandamenti al capo del suo popolo). Cicerone elabora anche dei principi concreti derivanti dalla legge di natura: diritto all’autodifesa, proibizione di danneggiare o ingannare gli altri (uccidere, rubare, falsificare testamenti, commettere adulterio). Il diritto non nasce dalle leggi positive, ma da questa unica legge di ragione impressa nella natura.

La giustizia, più che una virtù totale come per i greci, ha a che fare con i rapporti intersoggettivi, e il suo principio essenziale è dare a ciascuno il suo.

Concetti analoghi sono contenuti nel De legibus, la prima opera di filosofia del diritto nella storia del pensiero.

Altri importanti concetti valorizzati da C.:

la certezza del diritto, ossia il potere che esso ha di permettere ai cittadini di prevedere con sicurezza gli effetti dei comportamenti individuali e dello Stato;

la natura giuridica dello Stato (i greci lo vedevano come un’essenza etica): ciò che distingue un raggruppamento qualsiasi di uomini da uno Stato è l’elemento connettivo della legge. Se c’è un vinculum juris allora abbiamo un populus e non un’accolita di uomini che si uniscono per obiettivi comuni; quando i membri di una società sono legati dal vincolo giuridico formano un vero e proprio organismo, fornito della sovranità; la società politica è cementata dal Diritto. Non importa quale sia la forma di governo, se monarchica, aristocratica o democratica, ciò che resta intatto è che il detentore della sovranità è il populus. Nel mondo romano, a parte Cicerone, la riflessione sullo stato, inteso come un’entità astratta distinta dalle sue componenti principali (il Senato e il popolo), è quasi del tutto assente.

Epicureismo (III a.C.)

Epicuro, Lucrezio Caro

Epicureismo romano –  Il libro V del De Rerum Natura di Lucrezio (I a.C.) è, a parte gli accenni dei Sofisti, il primo documento della teoria del contratto sociale: tanto la società quanto il diritto hanno un fondamento contrattuale. Lucrezio per la prima volta descrive quello che verrà in seguito definito “stato di natura”: alle origini dell’umanità non vi è convivenza sociale, gli uomini vivono come bestie; successivamente, quando si formano i primi nuclei, avviene anche la scoperta dell’oro; l’avidità genera conflitti, per evitare i quali si stabiliscono i primi patti (foedus), in modo che gli uomini “non recano e non subiscono reciprocamente danno”. Nascono le leggi e i magistrati, dunque lo stato. Lucrezio nel mondo romano è il primo a tentare una speculazione teorica sul fondamento storico e morale dello stato, ma sostanzialmente riprendendo la teoria greca.

Scetticismo

Pirrone (IV-III a.C.), Carneade (II a.C.)

Rifiuto di ogni dottrina che pretenda di dare un’interpretazione “vera” della realtà. Non vi sono verità universali, ma solo opinioni, che variano secondo le persone, i tempi e i luoghi. Tale relativismo si riverbera anche nel diritto: non si possono ricavare leggi eterne e universali, il “giusto per natura” non esiste, perché la realtà ci dimostra che popoli diversi, sia nello spazio sia nel tempo, hanno adottato leggi diverse: i Persiani ritengono lecito congiungersi con le figlie, i Massageti hanno le mogli in comune, i Cilici ritengono lecito il brigantaggio (Pirrone).

La giurisprudenza romana

Ulpiano (inizio III d.C.), Gaio, Modestino, Marciano, Papiniano

I giuristi romani, le cui teorizzazioni ci sono pervenute attraverso il Digesto, sono grandissimi nell’elaborazione dottrinale del diritto positivo, ma meno sul piano filosofico. Occasionalmente anche i giuristi attinsero il piano ideale. Quando lo fanno, trasportano il punto di vista stoico, che è metafisico, nel diritto positivo. Vengono così spesso, con magniloquenza e retorica, attribuiti al diritto positivo i caratteri di assolutezza della Legge eterna degli stoici. Si attribuisce così alla scienza del diritto la dignità di forma di conoscenza superiore; per Ulpiano il diritto e “l’arte del buono e del giusto” (cita Celso) [la giurisprudenza è la “conoscenza delle cose umane e divine, scienza del giusto e dell’ingiusto”].

Concetto di giustizia: è la volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto (soggettivo).

Tre principi fondamentali del diritto: vivere onestamente, non recar danno agli altri, dare a ciascuno il suo. Il primo principio non è un precetto giuridico, ma morale, e ciò proverebbe che i Romani, come i Greci, non distinsero il diritto dalla morale.

Il concetto di legge – Alcuni, come Gaio o Modestino, restano sul terreno del diritto positivo, e offrono definizioni chiare: la virtù della legge è nel “comandare, vietare, permettere, punire”. Altri attingono alla filosofia stoica o a fonti eclettiche, come Marciano e Papiniano, che riprendono una definizione (del IV a.C. erroneamente attribuita a Demostene e oggi ricordata come Anonimo Perì Nomon; Fassò p. 115) che riunisce in sé concezioni diverse del passato: da quella, arcaica e aristocratica, che faceva risalire la legge alla volontà divina, a quella stoica della legge come sentenza degli uomini saggi, a quella che considera, sulla scorta di Lucrezio, la legge prodotto di una convenzione dei membri della società[2].

Ulpiano introduce concetti che successivamente saranno interpretati in senso assolutistico: “Ciò che ha voluto il sovrano ha forza di legge” e “l’imperatore è sciolto dall’obbligo di osservare le leggi” (legibus solutus), anche quelle da lui emanate. Per quanto riguarda il primo detto, probabilmente Ulpiano intendeva comprendere fra le diverse fonti del diritto anche le costituzioni imperiali (i decreti dell’imperatore), accanto alle leggi (leges), ai plebisciti, ai senatusconsulta, agli editti dei magistrati e ai prudentium responsa. Tanto più che per Ulpiano il potere imperiale ha origine popolare: il potere sovrano formalmente viene conferito dal popolo, la cui volontà resta così teoricamente la fonte prima della legge.

Diritto naturale – Ulpiano dà una definizione del diritto naturale che travisa il concetto stoico, riducendo la legge naturale all’istinto, che è posseduto anche dagli animali; la legge naturale è intesa materialisticamente come necessità biologica (es. l’unione del maschio e della femmina, comune agli uomini e agli animali). Tale interpretazione, per l’autorità di Ulpiano, verrà tramandata, insieme a quella razionalistica di Cicerone, al pensiero medievale.

Bipartizione in ius naturale e ius civile, dove il secondo è il diritto positivo di ciascuno Stato. A volte viene aggiunto lo ius gentium, ma questo non può essere diverso dal diritto naturale, poiché è osservato presso tutti i popoli in quanto è posto dalla ragione naturale. Esempi di norme considerate di diritto naturale contenuti nelle Istituzioni giustinianee: la natura di res communes dell’aria, dell’acqua corrente, del mare e delle spiaggie, il riconoscimento allo scopritore della proprietà delle pietre preziose trovate sulla spiaggia, l’illiceità del furto e dell’arricchimento con danno altrui.

Cristianesimo

Il cristianesimo delle origini

L’evangelo di Gesù è di natura assolutamente religiosa e spirituale, senza alcuna implicazione sociale, politica e giuridica. Gesù attacca il legalismo ebraico (Farisei), vuoto attaccamento alla lettera della legge veterotestamentaria, che ostacola ciò che conta, ritrovare Dio nel profondo della propria anima, raggiungendolo in un supremo slancio d’amore. Il cristiano dei Vangeli è preoccupato solo del regno di Dio (cioè alla realizzazione della parusìa), non del regno di Cesare.

Anche il concetto di “giustizia” (Discorso della Montagna: beati coloro che a causa della giustizia sono perseguitati) non riguarda la regolazione di rapporti intersoggettivi, sociali; va intesa come perfezione dell’anima, santità, virtù totale conseguita per aver ricevuto la grazia, aver fede in Cristo e quindi essere redento dal peccato. È quindi una condizione di perfetta solitudine, che esclude ogni tipo di rapporto con gli altri uomini. Bisognerà arrivare a S. Tommaso perché nel pensiero cristiano il termine giustizia assuma il carattere intersoggettivo. [Fassò]

Di diverso avviso F. Carnelutti [1955]: il “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” non significa che tutta la giustizia sia contenuta nel diritto (a sua volta prodotto dallo Stato); lo Stato è necessario ma insufficiente; se si assegna allo Stato, oltre al diritto, anche la giustizia, si ammette un’immanenza della giustizia nel diritto. In sostanza, la giustizia non è tutta nel diritto, perché essa ha una natura trascendente, di tipo regolativo rispetto alla norma giuridica.

S. Paolo (I sec.) – Nelle lettere è frequente la polemica contro il legalismo giuridico; non solo nei riguardi della legge mosaica, ma della legge in generale, superata nella fede e nell’amore.

Contrapposizione fra natura e grazia: la natura è “carne”, “mondo”, peccato, condizione terrena dell’uomo caduto; la grazia, dono divino, riscatta l’uomo dalla natura, dalla condizione mondana.

Analoga contrapposizione fra ragione e fede: la ragione è una caratteristica della natura dell’uomo, legata alla sua imperfetta condizione terrena; solo la fede può far conoscere il vero.

Uguaglianza fra tutti gli uomini (dunque delegittimazione della schiavitù).

Lo Stato – Dopo il peccato Dio, come forma di disciplinamento dell’uomo, introduce il governo, cioè il potere coercitivo. Dunque vi è un dovere di obbedienza passiva del cristiano all’autorità costituita, in quanto ogni potere deriva da Dio (Lettera ai Romani). Tale sottomissione ha un’eccezione, ed è il caso in cui chi governa chiede all’individuo di negare i suoi valori religiosi.

Le prime generazioni cristiane conservano il disinteresse evangelico per il diritto e per lo Stato, come per tutto ciò che era legato alla vita terrena. A volte tale disinteresse diventa un rifiuto, che li fa apparire come sovversivi, e fa subire loro persecuzioni. Tuttavia con il formarsi di una società cristiana sorge anche l’esigenza dell’organizzazione: nasce la Chiesa, e con essa la necessità di regole di vita e di coesistenza fra i membri, di gerarchia, di organi legislativi e amministrativi, di sanzioni: insomma, di diritto. L’edificazione di un diritto cristiano fa venir meno il precedente atteggiamento di rifiuto della giuridicità. E, secondo effetto, conduce verso un nuovo conflitto, quello con l’impero.

La “giuridicizzazione” della società cristiana, e in generale l’impegno temporale, a partire dal II secolo provocò reazioni all’interno della dottrina che la Chiesa condannò come ereticali: Marcione, il millenarismo, il montanismo.

La Patristica (II-VIII)

Patristica greca  – S. Giustino, Atenagora, Clemente, Origene (III), S.Crisostomo (IV) – dal carattere più razionalistico;

Patristica latina – Tertulliano (II-III), Lattanzio, S.Ambrogio (IV), S.Agostino – tendente a conservare la prevalenza della fede sulla ragione e della volontà sull’intelletto.

Il concetto di giustizia è il medesimo del c. neotestamentario delle origini, cioè come perfezione religiosa, non nel suo significato sociale.

La legge naturale – Come visto in precedenza (v. S. Paolo), nel c. delle origini l’idea di una legge naturale e razionale era tre volte rifiutata: perché legge, perché natura e perché ragione. Tuttavia la diffusione del c. nei territori del bacino mediterraneo, di cultura ellenistica in oriente e latina in occidente, produce inevitabili contaminazioni. I Padri della Chiesa anteriori a S. Agostino, nell’elaborazione della dottrina cristiana assimilano temi della cultura greco-romana. In particolare tendono ad assimilare sempre più la legge di Dio alla legge della natura e della ragione (sull’esempio degli Stoici, che però erano immanentisti). Le leggi positive, se contrarie al diritto naturale, non sono valide.

Essi non sembrano avvedersi delle diverse conseguenze che derivano, a livello dottrinale e religioso, dal considerare buona la legge perché voluta da Dio, o invece voluta da Dio perché buona di per sé stessa (il primato spetta alla natura o a una volontà superiore?). L’acquisizione del diritto naturale pone un problema grave, di cui si accorgerà S.Agostino: se gli uomini possiedono già per natura il criterio per distinguere il bene dal male ed agire bene, e quindi il mezzo per conseguire la salvezza, può essere posta in dubbio la necessità della redenzione e della grazia, e quindi della venuta del Cristo.

Comunque, la cristianizzazione del mondo antico ha come effetto l’accoglimento da parte del c., attraverso il giusnaturalismo, di un elemento razionalistico.

S. Agostino (V) – A lui fa capo uno dei due grandi filoni del pensiero cristiano, quello che conserva l’ispirazione mistica delle origini.

Dopo la polemica (411) con Pelagio, giusnaturalista, l’agostinismo giuridico si traduce in un volontarismo: l’unica fonte del diritto è la volontà di Dio; volontà in generale insondabile, ma rivelata parzialmente dalle Scritture e manifestata in ogni momento dall’ordine provvidenziale della storia. Impotenza della ragione ad attingere il criterio della giustizia.

Accettazione dei diritti positivi stabiliti dai poteri costituiti, che traggono la loro autorità da un mandato divino; obbedienza anche se alcune di queste norme sono ingiuste, perché esiste una ragion d’essere nascosta all’uomo nella storia della salvezza. [Su queste basi anche il pensiero di Duns Scoto, Ockham, Lutero, Calvino.]

Medio Evo

Alto medioevo (V-XII)

Secondo la concezione medioevale il diritto non è disponibile dall’uomo, in quanto è di derivazione divina, e si rivela agli uomini nei contenuti del diritto naturale. La sua interpretazione può differire nei tempi e nei luoghi, ma nella sostanziale identità dell’idea di giustizia. Il diritto positivo è l’interpretazione del diritto naturale affidata alle autorità secolari, l’Imperatore del Sacro Romano Impero (soprattutto, e in particolare il diritto romano di Giustiniano) e il Papa.

Relativamente alla fonte del potere e del diritto a governare, due concezioni: “discendente” e “ascendente”. La prima, caratteristica della tradizione romana, sostiene che il potere sia originariamente concentrato nelle mani del sovrano, che non ne è debitore verso nessun essere umano (nella versione cristiana si è visto che questo potere è stato conferito al sovrano da Dio); i sudditi non hanno alcun ruolo nelle condizioni del suo esercizio e devono solo sottomettersi.

Secondo la concezione “ascendente”, di tradizione germanica, il potere deriva in ultima analisi dal popolo, che lo delega verso l’alto, al sovrano, vincolato al rispetto delle leggi, che gli preesistono.

Origine pattizia della legge (VII-IX)

La concezione del diritto dei popoli germanici invasori dell’impero romano d’Occidente era opposta a quella assolutistica che si era di fatto affermata con Diocleziano e Costantino, secondo la quale la volontà dell’imperatore era la principale fonte del diritto. Per le popolazioni germaniche il diritto è concordato tra il re e il popolo, e il re è soggetto alla legge. Tuttavia l’assimilazione culturale e religiosa che il mondo romano e cristiano esercita nei confronti dei Germani invasori converte questi all’idea prevalente che il potere discende dal sovrano. La teoria (in realtà una mera pratica) del potere “dal basso” vive un’esistenza sotterranea e riemergerà solo verso la fine del XIII secolo. In questi secoli tale concezione, secondo cui il potere legislativo del principe è delegato a lui dal popolo, viene articolata da autori quali s. Isidoro di Siviglia (VII) e Incmaro (IX). Incmaro di Reims, consigliere dell’imperatore Carlo il Calvo, nel De ordine palatii teorizza una pratica radicata nel mondo germanico, e cioè il fatto che il diritto era una consuetudine immemorabile della comunità, la cornice in cui il re si collocava, e che egli non poteva modificare ad arbitrio. Qualsiasi mutamento doveva ricevere l’approvazione di un’assemblea degli uomini più importanti della nazione. Nell’XI in Manegold di Lautenbach questa idea assume le vesti di una dottrina contrattualistica: il popolo elegge il re per essere preservato dalla tirannide; se il re si comporta in maniera tirannica e ingiusta decade dalla carica perché ha violato il patto con il popolo. L’opinione di Manegold è dirompente perché per primo legittima il diritto di ribellione da parte dei sudditi. L’inglese Giovanni di Salisbury (XII) ammetterà il tirannicidio. La sottomissione del re alla legge sarà precisata nel XIII dall’inglese Enrico di Bracton, primo annuncio del costituzionalismo (Fassò).

Canonisti

Graziano (Decretum Gratiani, 1140) – Raccoglie una massa di decisioni delle autorità ecclesiastiche, identificabile con il diritto canonico, a quel tempo di forte impatto perché la giurisdizione della chiesa si estendeva a diverse materie (matrimonio, famiglia, successioni).

Sul piano teorico identifica il diritto naturale con la legge mosaica ed evangelica, cioè con la legge divina positiva rivelata. Le leggi terrene contrarie al diritto naturale devono essere respinte.

Basso medioevo (XIII-XIV)

Dottrina del “diritto comune” (XIII-XIV)

Scolastica

L’idea di diritto naturale negli ultimi secoli aveva assunto tre versioni: volontaristica (ciò che è contenuto nei testi sacri), naturalistica (alla Ulpiano, come istinto degli esseri animati), razionalistica (ciò che detta la retta ragione). L’indirizzo razionalistico della scolastica valorizza la ragione, pur cercando di renderla sempre compatibile con le verità di fede. In generale la Scolastica (e in genere la teologia cattolica) stabilisce un equilibrio – o un compromesso – tra le esigenze della vita propriamente religiosa e le esigenze della vita sociale e politica: la grazia è intesa non come negazione della natura, ma come suo perfezionamento; la ragione è riconosciuta come legittima premessa della fede; la Chiesa non è solo una comunità di credenti redenti dal peccato e destinati alla salvezza eterna, ma anche una società terrena organizzata giuridicamente. [A questo compromesso, che mortificherebbe gli slanci mistici e sarebbe fonte di corruzione mondana, si ribelleranno i volontaristi, i movimenti ereticali spirituali e i protestanti.]

Il giusnaturalismo medievale pone l’accento sugli obblighi imposti dalla legge naturale assai più che sui diritti da essa conferiti (cosa che farà il giusnaturalismo moderno).

Abelardo (XII sec.): è il più razionalista degli scolastici

Tommaso d’Aquino 

Summa Theologica (1274)

Campione della scolastica, tentativo di fusione della dottrina cristiana con il pensiero di Aristotele. Concilia il diritto naturale come prodotto della ragione e dottrina cristiana. Esiste un ordine ontologico, una natura delle cose, che comprende anche la natura umana.

Nella comprensione dei fini di Dio, la ragione ha una sua autonomia rispetto alla fede ed usa un procedimento di indagine proprio. Le verità di fede si conoscono solo attraverso la rivelazione; tuttavia la ragione, sebbene su un piano inferiore rispetto alla fede, ha un duplice compito: chiarire le verità della fede e agire autonomamente in alcune sfere della conoscenza di suo esclusivo dominio. Fede e ragione non sono in contrasto, la grazia non abolisce la natura, ma la conduce a perfezione. Questo spazio per la ragione si apre nel campo giuridico e politico. La comprensione delle leggi naturali è possibile anche se uno non crede nell’esistenza di Dio.

Il diritto, cioè l’insieme delle soluzioni giuste, è iscritto in un ordine naturale stabilito da Dio, al quale egli stesso obbedisce; il diritto può essere svelato con un uso corretto della ragione. Dunque il diritto è anteriore al diritto positivo; esso non lo si trova “tutto pronto” nelle fonti (Scritture e leggi positive) ma va trovato attraverso una precisa tecnica di investigazione che assegna un grande ruolo alla discussione e all’indagine casistica.

La legge è ragione; è la ragione del sovrano che realizza il bene comune. Vi sono quattro specie di legge: divina, eterna, naturale e umana. La legge naturale è la parte della legge eterna che si irraggia nella ragione umana, ed è guida per l’uomo nel perseguimento dei suoi fini terreni (fare il bene, evitare il male). Tale legge è conoscibile non solo grazie alla rivelazione, ma anche grazie alle operazioni svolte dalla ragione umana; norma, perciò, razionale. Quando T. deve indicare che cosa  in concreto prescrive la legge naturale, come detto indica solo un principio universale e immutabile, “si deve fare il bene, si deve evitare il male”, che è formale; da cui derivano comportamenti come l’autoconservazione, la propagazione della specie, l’allevamento dei bambini, il desiderio della verità religiosa, la giustizia nella compravendita. [che cosa sia il bene e che cosa il male non è indicato; anziché proporre principi invariabili di giustizia, cioè una scienza del naturale, suggerisce di esercitare un’arte di trovare il giusto caso per caso]

La legge umana, cioè il diritto positivo, è istituito perché con la forza e il timore gli uomini si astengano dal male se, a causa delle passioni, non seguono la propria natura razionale. La legge umana è costituita dalle norme prodotte dal legislatore; a titolo di “determinazione” o di “conclusione”; es.: la legge naturale vieta l’omicidio, il legislatore determina la pena per questo reato (determinazioni); conclusioni: deduzione di regole particolari da principi più generali. La legge umana deve essere conforme ai principi della ragione, non è legittimata solo dalla volontà o dall’arbitrio di chi comanda; l’obiettivo è sempre il bene comune, inteso non solo in senso materiale, ma anche come spinta alla virtù.

Diritto per T. è sia la consuetudine sia la legislazione (e anzi, il diritto consuetudinario ha un rango superiore).

Secondo J. Finnis dall’insegnamento di Tommaso sulla legge naturale discende una dottrina dei diritti naturali o diritti umani. Ciò sarebbe ricavabile dalla frase di Tommaso secondo cui giustizia è volontà di dare ad altri ciò che è loro diritto (ius suum). L’elenco di esempi di ingiustizie fatto da Tommaso (essere uccisi, feriti, essere falsamente accusati, essere traditi, subire danni alla proprietà) sarebbe implicitamente una lista di diritti di cui ciascuno è titolare. Se noi abbiamo dei doveri nei confronti degli altri, allora essi, in quanto beneficiari di tali nostri doveri, hanno diritti

Contrari a questa tesi sono M. Villey, E. Fortin, M. Zuckert e B. Tierney. Per Villey l’idea dei diritti soggettivi è logicamente incompatibile con la dottrina del diritto naturale di Tommaso. Il concetto aristotelico di diritti naturali fatto proprio da Tommaso è diverso dall’idea moderna di diritto soggettivo, che è “una facoltà del soggetto, uno dei suoi poteri”. Per Tommaso, come nell’epoca classica, ius significa “ciò che è giusto” o “ciò che è bene”. In questo senso rappresenta una restrizione al potere individuale, non un’estensione. Egli attribuisce al termine un significato oggettivo, non soggettivo. Lo ius designa anche la punizione che un individuo può subire; non può quindi essere interpretato come right, diritto soggettivo.

Fortin non ritrova una simile dottrina in Tommaso (e considera Hobbes il grande innovatore in questa sfera).

Per Zuckert la legge naturale di Tommaso focalizza l’attenzione sul comando morale, che limita la libertà d’azione dell’individuo; mentre il diritto soggettivo è autodeterminazione dell’agente, implica una sfera di autonomia personale. Non è possibile dedurre un diritto da un comando morale, dunque i diritti naturali non derivano dalla legge naturale.

Dottrina politica – Lo Stato non è più come per Agostino la città del demonio. Utilizzando la tesi aristotelica dell’uomo animale sociale, nobilita l’organizzazione politica conferendole una caratteristica di “naturalità”. Il governo di un uomo sull’altro vi sarebbe stato anche se non ci fosse mai stata la caduta; gli uomini avrebbero vissuto in società anche nello stato di innocenza, e la vita in società necessita del comando di uno che miri al bene comune (è questo il fine limitato, la ragion d’essere dell’ordine politico, cioè dello stato).

Il principe è esente dalla legge, sebbene sia opportuno che volontariamente vi si sottoponga.

Volontarismo

Dopo S. Tommaso in seno alla Scolastica la polemica fra intellettualisti e volontaristi si fa aspra. La reazione al razionalismo di Tommaso si manifesta in particolare fra gli agostiniani e i francescani. Il volontarismo si afferma nel ‘300. Esso identifica la legge naturale con la legge positiva rivelata da Dio; ciò che vuole Dio è giusto, anche se agli uomini può sembrare ingiusto o non logico secondo la ragione.

Giovanni Duns Scoto (Opus Oxoniense, Reportata Parisiensia) – Causa prima e assoluta è la volontà di Dio, che è causa di sé stessa e non è determinata da nient’altro, quindi neppure dalla ragione. Dio vuole ciò che vuole senza nessun altro motivo se non che lo vuole. Le leggi è il contrario.

Guglielmo di Ockham – Dio può modificare la morale e il diritto naturale a suo arbitrio; le azioni buone e le azioni cattive differiscono solo perché Dio ha ordinato le prime e vietato le seconde; ma se Dio avesse ordinato l’adulterio o il furto, queste sarebbero azioni buone. La ragione non ha alcun ruolo significativo, non è che il mezzo di notificazione all’uomo della volontà di Dio.

È un empirista radicale: l’unica conoscenza sicura della realtà si fonda sull’esperienza, i concetti e le idee sono delle astrazioni (nominalismo). Dio, la realtà soprannaturale, essendo di là dall’esperienza umana, esulano dal dominio dell’indagine filosofica e sono puro oggetto di fede. Viene quindi meno il problema fondamentale della Scolastica, la spiegazione o la conferma razionale delle verità rivelate; l’uomo, finché è su questa terra, non può che accettare queste verità per fede.

Marsilio da Padova

Defensor Pacis (1324)

Teoria del diritto – Affermazione dell’origine e del fine puramente umani del diritto. La legge è criterio del giusto e dell’utile sul piano umano, terreno.

Essa è comando, precetto coattivo per mezzo di una pena o di un premio, a prescindere dal suo contenuto etico [prima formulazione del positivismo giuridico: riduzione del diritto a comando coattivo dello Stato]. Non che M. neghi che vi sia una legge divina, con sanzioni ultraterrene, ma appartiene a un ordine diverso da quello terreno: il diritto propriamente detto è il sistema di comandi muniti di sanzione terrena.

M. coglie un altro carattere importante del diritto: i comportamenti giuridici sono quelli connessi con l’intersoggettività, con l’essere ad alterum, che riguardano azioni che toccano gli altri (actus transeuntes, distinti dagli actus immanentes, che rimangono interni al soggetto, come i pensieri o i sentimenti).

Il principe è esente dalla legge. [Kelly: ma già dal XIII prende corpo l’opinione opposta: in Inghilterra la Magna Charta e il De legibus et consuetudinibus Angliae (1258) di Bracton,]

A partire dal secolo 13° il diritto romano torna ad assumere importanza integrandosi nel sistema delle fonti della maggior parte dei regni europei. [Le tesi su tale recezione sono diverse: si attagliava bene al decollo dell’economia mercantile e monetaria; la restaurazione dell’impero d’occidente nel 9° secolo richiedeva l’unità giuridica; si impone in virtù della superiore perfezione che gli era riconosciuta.]

I Glossatori

Nel ‘200 si ha la ripresa dello studio del diritto romano: a Bologna sorge una scuola di giuristi, i “Glossatori” (perché apponevano note esplicative a margine, o glosse, dei passi del testo classico), che si dedica alla ricostruzione analitica e all’esegesi del Corpus juris civilis. Il punto culminante di tale attività è la Glossa di Accursio (1250 circa), che riassume e unifica i precedenti lavori bolognesi, e rappresenta lo strumento della recezione del diritto romano negli Stati europei, conservando il suo valore pratico fino alle codificazioni illuministiche del ‘700. Con i Glossatori ha origine anche, ma solo a livello teorico, il diritto pubblico, che ha per oggetto i rapporti fra individui e potere sovrano. I Glossatori rivolgono l’attenzione agli ultimi tre libri del Codex giustinianeo, omessi dallo studio medioevale perché dedicati alle strutture fiscali ed amministrative di un impero che non esisteva più. Si comincia così a discutere in termini giuridici delle strutture dello Stato e del fondamento del potere che le crea, modifica ed estingue. La Scuola dei Glossatori, interpretando il più letteralmente possibile il codice di Giustiniano, proclamava che il princeps, equiparato all’Imperatore del Sacro Romano Impero, doveva essere l’unico reggitore del mondo. Ciò comportava che i Comuni del Regnum Italicum (la parte dell’Italia settentrionale corrispondente al regno lombardo del Basso Medioevo; in seguito si considereranno anche i comuni del centro) non avrebbero potuto rivendicare alcuna indipendenza de jure dall’Impero.

Sul piano della filosofia del diritto il loro contributo non è particolarmente rilevante, non mostravano alcun interesse per la filosofia. La legittima fonte del diritto è l’imperatore.

Ma nel ‘300 i regna, come anche i Comuni italiani, sono di fatto assolutamente indipendenti dall’impero. La situazione giuridico-politica è espressa dalla formula rex est imperator in regno suo: nel territorio del proprio regno il re ha gli stessi poteri dell’imperatore, e in primo luogo quello di emanare norme giuridiche. Le monarchie si avviano a diventare un fattore di unificazione nazionale (politica e culturale) intorno al ‘300. In Spagna l’unificazione dei vari regni di Aragona, Castiglia, Granada e Navarra è portata a compimento alla fine del ‘400. L’impero germanico, invece, fu caratterizzato da un forte particolarismo e da una notevole frammentazione politica ed amministrativa.

Come gli Stati in questo periodo tendono a liberarsi del legame con l’impero, così il diritto di quegli anni tende a liberarsi dalla soggezione al testo giustinianeo. La glossa viene sostituita dal commento: perciò i giuristi della scuola più importante, quella di Orléans, prendono il nome di “Commentatori”. Non a caso il centro è la Francia: essa infatti asseriva sempre più la propria indipendenza dall’impero; inoltre su una parte del suo territorio prevaleva il diritto consuetudinario che rendeva più agevole il distacco dalla glossa accursiana. Fra i Commentatori, un contributo teorico in questa direzione è offerto in particolare da Bartolo.

I Commentatori

(Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi)

Nel ‘300 la glossa, che si attiene alla lettera della norma, sembra aver esaurito il suo compito. Si afferma un nuovo indirizzo, il commento, più libero dalla lettera del testo romano, e volto al senso della norma più che al significato letterale. I “Commentatori”, attraverso l’uso di un metodo dialettico di ispirazione aristotelico-tomista, svolgono un’opera di ricostruzione logica del diritto che mira a risalire dalla lettera della legge alla ratio del legislatore. Essi svolgono interpretazioni sofisticate del Corpus giustinianeo per adeguare il diritto comune alle circostanze concrete e ridurre ad unità logica il coacervo di fonti del diritto diverse. I Commentatori vedevano nel diritto romano un insieme di principi da adattare alla realtà dei singoli Stati per mezzo di interventi interpretativi. Sia i glossatori sia i commentatori sono interessati in primo luogo all’applicazione pratica del diritto, non alla teoria, che va intravista tra le righe.

Bartolo da Sassoferrato  (commentario del Digesto, ca. 1350) – Reinterpreta il codice di Giustiniano in una prospettiva più favorevole ai Comuni. Sostiene B.: la legge (intesa come legge dell’Impero) deve sempre piegarsi ai fatti. Poiché i Comuni si danno di fatto leggi autonome (statuta), essi detengono sulla loro popolazione lo stesso potere che l’Imperatore possiede in generale, il merum Imperium. Anche se non c’è stata una concessione da parte dell’Imperatore, B. propone di seguire il principio per cui se possono dimostrare che hanno esercitato il merum Imperium di fatto, allora ne hanno anche diritto. La sovranità effettiva comporta la sovranità giuridica. È un passo rivoluzionario, in quanto nel diritto civile viene introdotta la possibilità di essere riconosciuti come entità sovrane completamente indipendenti [primo esponente della sovranità dello Stato]; giuristi francesi della corte di Filippo il Bello compiono la stessa operazione, estendendo ai regni dell’Europa settentrionale la dottrina applicata ai Comuni.

Per quanto riguarda la struttura istituzionale interna di queste entità sovrane, posizione simile a quella di Marsilio: teoria della sovranità popolare; la sovranità viene delegata, mai alienata; in più, nell’atto di instaurazione di uno Stato i cittadini non conferiscono al governante nessun potere maggiore di quello posseduto da loro stessi, assicurando così che lo stato giuridico del governante sia quello di un rector della collettività [importante contributo al costituzionalismo successivo].

Rinascimento (‘400 e ‘500)

Il rinascimento è recupero del mondo antico. Dal punto di vista giuridico, del diritto romano. Ma il ‘500 (e poi anche il ‘600) sono caratterizzati da un allontanamento dalle fondamenta romano-giustinianee. La reazione a questo allontanamento si manifesta in tre modi:

1) una corrente, mos gallicus o scuola culta (in Francia [Alciato, Budé, Connan, Duaren, Doneau, Cujas, Hotman] e Olanda), si rivolge al diritto romano-giustinianeo con un interesse storico-filologico; ciò che interessa è la formulazione originaria dei testi studiati, che vanno depurati dalle alterazioni, aggiunte commenti e glosse effettuati nei secoli; ricorrendo alle fonti antiche, giuridiche e non giuridiche, si punta ad una ricostruzione filologicamente rigorosa per poter fornire il significato originale dei testi;

2) un’altra, l’“uso moderno delle Pandette” (Germania: Voet, Stryk), si dedica a inserire le realtà normative nazionali negli schemi concettuali dei Commentatori, sviluppando e completando il sistema del diritto da essi costruito;

3) nel campo della civilistica, nei paesi come l’Italia e la Spagna in cui il diritto civile è quasi esclusivamente a base romanistica, il sapere dei Commentatori viene conservato e si continua a far girare il suo meccanismo scientifico sempre più a vuoto (“tardo bartolismo”).

In questi due secoli resta dominante (anzi esclusiva), come era stato nel medioevo, la visione “imperativa” della natura del diritto; le norme giuridiche vietano o impongono; la coercitività è la caratteristica esenziale del diritto (Fortescue, de Soto, Mariana, Hooker). [Kelly: nonostante esistessero quelle che oggi vengono chiamate “norme di riconoscimento” o “norme che conferiscono poteri” (norme secondarie di Hart) il pensiero dell’epoca non mostra alcun segno di scoraggiamento di fronte alla manifesta difficoltà di adattare tali norme al quadro giuridico.]

Scetticismo (Montaigne, Charron)

La constatazione che i vari popoli hanno leggi, istituzioni e costumi diversi dimostra l’inesistenza di una legge naturale. I filosofi sostengono che vi sono alcune leggi stabili e immutabili; ma quando devono indicarle, chi ne enumera tre, chi quattro, chi di più, il che significa che non vi è alcuna stabilità e immutabilità.

Scarso interesse per il diritto manifestano Moro e Erasmo da Rotterdam.

Machiavelli

Trascurabile è il ruolo del diritto nel suo pensiero. Nel Principe il diritto è uno degli strumenti di cui l’uomo politico si serve per il raggiungimento dei suoi fini. Tra l’altro uno dei meno efficaci: nella “realtà effettuale” che a M. interessa, la forza e la frode sono spesso strumenti più utili. Anche se in uno Stato vi sono buone leggi, non è detto che sia garantita la sua integrità; che dipende da quella forma autonoma dell’operare umano che è la politica.

Nei Discorsi viene rivalutata l’opera ordinatrice della legge.

Campanella (Aforismi politici, 1601)

Riforma protestante (XVI)

Lutero, Zwingli, Calvino

La natura dell’uomo è corrotta e dunque nell’ordine temporale è necessario l’uso della forza, lo Stato, che punisca i malvagi e imponga la pace sociale. Il governante, ministro di Dio, ha un potere senza limiti. Teocrazia.

I monarcomachi [v. FP]

Seconda scolastica (XVI-XVII)

Le leggi vincolano il re (anche quelle prodotte dal re stesso).

Bodin

Costituzionalismo  inglese

Giusnaturalismo moderno

(‘600, ‘700)

Il problema del diritto internazionale – Con il formarsi degli Stati, e delle guerre fra essi (incoraggiate dal desiderio di dominio delle nuove terre scoperte e dei mari), si pone il problema di trovare al diritto di guerra, e in generale al diritto internazionale, un fondamento valido per tutti gli uomini. Sul piano pratico si sente la necessità di norme sulla navigazione e sulla condotta della guerra: trattamento dei prigionieri, condizioni delle popolazioni civili, le rappresaglie, ambascerie, prede, trattative di armistizio o di pace. Sul piano teorico, mancando un’entità politica superiore agli Stati, si cerca di elaborare un diritto naturale superiore alle leggi positive temporali o religiose.

Grozio (Sul diritto della guerra e della pace, 1625) – Nelle opere giovanili compaiono asserzioni di sapore volontaristico, ma l’esperienza dell’intolleranza religiosa in Olanda, che G. paga sulla sua pelle (si combattevano due sette calviniste, Arminiani e Gomaristi, e G., appartenente alla prima, finì in carcere), lo conduce al più rigoroso razionalismo. Il De iure belli ac pacis è propriamente un trattato di diritto internazionale (come si diceva allora, diritto delle genti), ma diritto internazionale e diritto naturale sono strettamente intrecciati, perché, non esistendo una comunità internazionale organizzata, con norme vigenti, si sente l’esigenza di determinare un fondamento di validità del diritto internazionale; e dunque si pone un problema filosofico: l’individuazione di un principio logicamente anteriore al diritto positivo e alle convenzioni fra Stati, un giusto per natura. È il diritto naturale.

Contro Carneade, il filosofo scettico che aveva criticato la filosofia stoica affermando che la legge è una convenzione fondata sull’utilità personale, G. sostiene che gli uomini sono istintivamente esseri sociali (“sociabilità”; argomento aristotelico e ciceroniano), e il mantenimento della società è un’utilità in sé, diversa e maggiore dell’utilità dei singoli individui. La natura sociale e razionale dell’uomo è la fonte del diritto propriamente detto, che è il diritto naturale. Esso si chiama così perché discende dai caratteri essenziali e specifici della natura umana, alla cui attuazione e conservazione è rivolto. Il diritto naturale è una norma della retta ragione che ci fa conoscere se una determinata azione è morale o immorale.

Essendo immanente alla stessa natura dell’uomo, il diritto naturale non potrebbe essere modificato da nessuna volontà; esso sarebbe valido anche se Dio non esistesse o non si occupasse delle cose umane;  nemmeno Dio può impedire che ciò che è male sia male, come non può impedire che due per due faccia quattro. [Affermando l’indipendenza del diritto naturale da Dio, distrugge ogni presupposto trascendentistico, teologico, religioso della moralità, proclamandone il carattere razionalistico e laico. Alcuni suoi contemporanei vi scorsero empietà, e l’opera fu condannata dalla Chiesa cattolica.]

La vita sociale dev’essere pacifica, e le condizioni richieste per questo scopo sono le leggi di natura: il rispetto dei patti (il primo e più importante, una sorta di categoria giuridica universale posta al di sopra degli altri principi), il rispetto delle cose altrui (astenersi da ciò che è di altri), la restituzione di ciò che si è tolto ad altri, la responsabilità penale, mantenere le promesse, risarcire un danno. Sulla base della legge naturale si modellano le leggi positive dei diversi Stati.

Metodo: G. è lontano dall’astrattismo razionalistico e dall’antistoricismo che in seguito assumerà il giusnaturalismo. Egli, in modo ambiguo, dichiara di applicare sia il razionalismo sia l’empirismo: con il primo si dimostra la conformità di qualche cosa con la natura razionale e sociale, con il secondo si conclude essere di diritto naturale ciò che presso tutti i popoli (quelli più civili) è ritenuto tale.

L’attenzione alla concretezza storica e l’idea aristotelica della naturalità della società fanno sì che G. non condivida la teoria del contratto sociale, sostenuta dal giusnaturalismo secentesco posteriore. La dottrina di G. non è individualistica, non c’è un patto fra singoli che illuministicamente dia vita alla società.

Pensiero politico: Il titolare della sovranità è il popolo, che attraverso un patto di governo ne trasferisce l’esercizio o a un sovrano o a un organo collegiale. In caso di abuso di potere è legittima la resistenza al tiranno.

Diritto penale: il De iure belli ac pacis è considerato anche il primo trattato di ampio respiro sulla pena, grazie ad un ampio capitolo ad essa dedicato.

Diritto internazionale: come i privati cittadini, quando sono in contrasto tra loro, ricorrono a un tribunale, così gli Stati sovrani dovrebbero sottomettersi alla giurisdizione internazionale per salvaguardare gli interessi dei cittadini dell’uno e dell’altro paese.

Per Fassò il contributo di G. in termini di innovazione è sopravvalutato. Il razionalismo di G. non è diverso dal tomismo ortodosso: egli non nega il fondamento teologico del diritto naturale, ma nega, contro i volontaristi, che diritto divino (legge rivelata) e diritto naturale siano la stessa cosa. Le frasi audaci di impronta “laica” erano state pronunciate già da autori come Gregorio da Rimini e Biel. L’impatto dell’opera di G. è dunque dovuta alle circostanze storiche: mentre le opere degli scolastici non uscivano dagli ambienti ecclesiastici della Controriforma, l’opera di G. uscì nei paesi divenuti i nuovi protagonisti della storia, politica, religiosa e culturale: Olanda, Francia, Inghilterra, Germania. Nel giusnaturalismo del De iure belli ac pacis la cultura del Seicento vede lo strumento per l’affrancamento dai dogmi e la fondazione dell’etica su basi puramente umane. G. dunque è padre involontario del giusnaturalismo moderno, che è caratterizzato da: laicità, razionalismo, individualismo, soggettivismo.

Soggettivismo: il diritto naturale è una norma umana posta dall’autonoma attività del soggetto, in particolare dalla ragione; e non, come nel g. antico o religioso, un dato proveniente da una realtà oggettiva – la natura o Dio – anteriore ed estranea al soggetto umano, da cui questo riceve passivamente le norme “naturali” della propria condotta.

Enfatizzazione delle facoltà inerenti al soggetto, dei diritti naturali soggettivi, o innati, che hanno la priorità sul diritto oggettivo positivo. Non bisogna fare confusione su questo punto: la priorità dei diritti naturali soggettivi è sul diritto positivo, non sul diritto naturale oggettivo, cosa che sarebbe priva di senso: questi due infatti sono concetti correlativi, cioè una facoltà di agire non può pensarsi se non entro un ordine (un diritto oggettivo) che accordi tale facoltà; attribuire diritti correlativamente richiede di attribuire obblighi ad altri, e ciò esige un diritto oggettivo (naturale).

Individualismo: l’ordine giuridico-politico è posto, per mezzo del contratto, dalla libera volontà dei soggetti, anziché dalla natura o da una volontà trascendente; e per la tutela di interessi individuali.

Una norma giuridica è tale solo se in accordo con standard morali universali. La validità di una norma dunque è strettamente legata al suo contenuto. La ragione può determinare un unico set di principi morali da cui ricavare il contenuto delle norme. Fissato il contenuto delle norme fondamentali, cioè delle norme che contengono i principi fondamentali, si cerca di ricavare un sistema di norme attraverso la deduzione logica. Un’idea analoga si ha della geometria (euclidea), che infatti rappresenta una specie di modello per il diritto: la geometria presenta un sistema di assiomi e di postulati iniziali; quindi una serie di teoremi, con un determinato contenuto, dai quali si deducono tutti gli altri.

Dunque, mentre per il positivismo il diritto è tale per il solo fatto che è imposto (ius quia iussum), per il giusnaturalismo il diritto è tale solo se è giusto (ius quia iustum).

Critica: le leggi che regolano la condotta umana non sono assimilabili alle leggi fisiche; le prime sono normative, non descrittive o predittive come le seconde. Di fatto non vi è accordo su di un unico set di principi morali (es.: aborto, eutanasia).

Althusius, Grozio, Hobbes, Spinoza, Pufendorf, Cumberland, Locke, Thomasius, Barbeyrac, Wolff, Rousseau, Kant, Fichte, [Radbruch]

Il primo che pone con piena consapevolezza, e non per accenni, la distinzione fra diritto e morale, acquisizione fondamentale della filosofia del diritto, è Thomasius (Kant tornerà sull’argomento, con ben altra fondazione filosofica). I criteri di distinzione sono due:

1) la morale regola gli atti interni (e comprende la vera virtù perché non ha alcuna obbligatorietà esterna, ma solo interna, di coscienza), il diritto le azioni esterne (ed ha quindi un carattere intersoggettivo ed è caratterizzato dall’obbligazione esterna, coattiva);

2) i precetti della morale sono positivi (fare agli altri quello che si vorrebbe fosse fatto a noi), quelli del diritto sono negativi (non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi). Tale distinzione è funzionale all’affermazione della libertà di pensiero: se la morale non può essere oggetto di coazione l’individuo può liberamente esprimere le manifestazioni della propria coscienza senza essere obbligato dal potere politico o ecclesiastico.

Leibniz

Illuminismo

Gli influssi dell’illuminismo sul pensiero giuridico conducono in direzioni diverse, talvolta opposte:

1) da un lato il (proseguimento del) tentativo di ricondurre le norme positive al diritto naturale del giusnaturalismo;

2) dall’altro lato la reazione contro il diritto naturale: le istituzioni politiche e giuridiche concrete sono diverse da popolo a popolo e nel tempo, dunque contingenti, e possono e devono essere valutate criticamente e messe in questione (Vico, Montesquieu, Voltaire, Hume mostrano tale atteggiamento relativistico).

Reazione contro il diritto naturale

Vico

Lungi dall’esserci un diritto naturale che impone le stesse regole agli uomini di ogni tempo e luogo, ogni società cresce in modo organico nel suo proprio ambiente particolare, e le sue istituzioni, comprese le leggi, riflettono la sua storia particolare.

Illuminismo scozzese

Hume

La ragione non è così potente e infallibile come ritengono i giusnaturalisti. I comportamenti e i valori umani dipendono da moventi e sentimenti soggettivi.

Il diritto è artificiale, e si sviluppa attraverso convenzioni. Le convenzioni, cioè le norme, nascono proprio per assecondare predisposizioni naturali dell’uomo come l’atteggiamento volto al proprio interesse personale, la preferenza per gli interessi presenti rispetto a quelli futuri, la scarsità. Le convenzioni dunque sono artificiali, ma non arbitrarie. Il vero fondamento della giustizia è l’utile; sono giuste le regole necessarie a conservare i beni indispensabili alla vita degli uomini. Le norme emanate a tale scopo non sono verità eterne, radicate nella natura, ma modi di condotta giustificati dall’esperienza, soggette a mutamenti se inefficienti.

Smith

La società può auto-organizzarsi anche senza l’intervento di un legislatore.

Illuminismo giuridico (o empirista)

Montesquieu

Lo spirito delle leggi (1748) Un realismo che tiene conto della storia, della geografia e della fisica, dunque che fonde elementi naturalistici e storici. Le leggi di cui si occupa M. sono le leggi positive. Le leggi di ciascun popolo riflettono il suo spirito, condizionato a sua volta da elementi geografici, climatici (libri XIV-XVIII), economici, demografici, politici, religiosi, consuetudinari. Lontano dunque dall’astrattezza e dall’universalità del giusnaturalismo.

In M. si ha l’espressione più compiuta della concezione della libertà garantita da leggi: libertà come sicurezza dalla violenza altrui, più che dal potere dello Stato; la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono. La legge invocata da M., quella che assicura la certezza del diritto, è la legislazione; consuetudini, precedenti giudiziari, interpretazioni (il sistema inglese) non hanno validità. I giudici non devono interpretare la legge, cioè non devono produrre diritto autonomamente, ma essere sottoposti alla legislazione.

Poche leggi, chiare e precostituite al giudizio, formulate in termini generali e astratti.

I codici

[Posizioni condivise dal pensiero illuminista e della rivoluzione francese: Voltaire, Diderot, Fisiocratici, Sieyes, Condorcet].

Costituzionalismo americano

Burke

Sul piano giuridico può essere considerato il padre della giurisprudenza storica. I sistemi giuridici di vecchia data, radicati nella storia, sono superiori ai sistemi artificiali e razionali con cui li si vuole sostituire.

Teorie della pena

Ci si comincia a interrogare sulla moralità e legittimità del punire atti privi di conseguenze dannose per la società, e da collocare fra i peccati ma non fra i reati. Voltaire e Beccaria: solo le colpe contro gli uomini, non quelle contro Dio, devono comportare una punizione; la bestemmia non causa danno materiale ad alcuno.

Burke: i vizi e le follie degli uomini devono essere tollerati fino a che non colpiscono l’ordine alla sua radice.

Si diffonde sempre più il criterio della redenzione e recupero del criminale come scopo della pena. Parallelamente comincia ad affermarsi l’idea che la società è in parte colpevole delle azioni delinquenziali delle persone (ad esempio perché le lascia in povertà), e dunque il motivo della retribuzione e quello della deterrenza perdono peso (Romilly, Godwin).

Bentham: se la pena è un male necessario ad evitare un male maggiore (in modo che l’utilità complessiva sia positiva), allora il criterio della deterrenza diventa dominante.

Blackstone: alcuni fattori (la violenta passione, la necessità) dovrebbero attenuare la colpa, e dunque la pena.

Beccaria: contro la pena di morte; la vita di un individuo non è nella disponibilità del sovrano (perché non è nemmeno nella disponibilità dell’individuo stesso).

Il sistema inglese era caratterizzato da una notevole severità nelle pene (la pena di morte era comminata per più di un centinaio di tipi di reati diversi). Autori come Blackstone (1765), W. Eden (1771) e B. Franklin (1775) invocano la cancellazione di tale sproporzione.

Kant

Metafisica dei costumi (1798)

Distinzione fra diritto e morale – Si basa sui diversi motivi dell’obbedienza ad essi, non sul contenuto delle loro regole (il divieto di uccidere si trova in entrambi): nel diritto l’obbedienza può essere meramente esteriore, dettata dal timore della sanzione, nella morale vi è un’adesione interiore. Da questo criterio fondamentale derivano le seguenti conclusioni:

– Il diritto riguarda le azioni esterne (es. uccidere), non quelle interne (es. amare il prossimo).

– Le norme morali si configurano come imperativi categorici, cioè incondizionati (“non uccidere”); le norme giuridiche come imperativi ipotetici, o condizionati (“se vuoi evitare la sanzione per l’omicidio, allora non uccidere”).

– Le norme morali sono autonome, cioè dettate dallo stesso soggetto che obbedisce; le norme giuridiche sono eteronome, dettate da un legislatore esterno al soggetto.

Caratteristiche del diritto – Formale: il diritto è per sue essenza formale, cioè non ha riguardo per gli scopi particolari che i soggetti di un rapporto perseguono, ma per la forma in cui essi li perseguono.

Coattività: il d. dovrebbe essere l’insieme delle condizioni che permettono la coesistenza delle volontà di individui diversi, coordinando la libertà esterna di ciascuno con la libertà esterna di ciascun altro. Per fare ciò il d. deve essere coattivo; infatti quando un certo uso della libertà rappresenta un ostacolo alla libertà altrui (“alla libertà secondo leggi universali”), quell’uso va impedito.

Kant dunque è l’antesignano della teoria del diritto come rapporto giuridico: il nucleo del diritto è il rapporto bilaterale fra un soggetto che esprime un diritto soggettivo e un altro soggetto che è onerato da un corrispettivo dovere. Il diritto è la somma dei rapporti giuridici fra le persone. È una teoria ispirata ad una concezione individualistica del diritto di matrice giusnaturalista. Ed è contrapposta alla concezione sociale-collettiva del diritto come organizzazione tipica dell’istituzionalismo.

Distinzione fra diritto naturale e diritto positivo – Le leggi delle quali può essere riconosciuto il carattere vincolante anche senza legislazione esterna, e cioè a priori per mezzo della ragione (pura), sono leggi naturali; quelle che senza una legislazione esterna non obbligano, sono leggi positive. Dunque esiste un diritto naturale, che è conoscibile attraverso la sola riflessione razionale, cioè attraverso la “metafisica”, non in base all’esperienza sensibile. Tale diritto naturale obbliga anche se contrasta con i comandi del legislatore. Dai principi razionali si dovrebbero ricavare le norme effettive, e cioè i diritti reali, le obbligazioni, il diritto di famiglia, il diritto d’autore, il diritto pubblico, il diritto penale, il diritto delle genti, il diritto cosmopolitico.

Vi è almeno una norma di diritto naturale che non può positivizzarsi: è quella che stabilisce l’autorità del legislatore, imponendo di obbedire alle regole da lui dettate.

Distinzione fra giurisprudenza e filosofia – Compito del giurista (giurisprudenza) è occuparsi di ciò che è “di diritto”, cioè di cosa prescrivono le leggi di un determinato paese; compito del filosofo del diritto è di occuparsi del concetto di diritto, ovvero della definizione di diritto.

Principi della legislazione nel ‘700

Per quanto riguarda lo scopo, continua ad essere dominante l’antica teoria secondo cui l’obiettivo di ogni legge e di ogni governo deve essere il bene comune (Madison, Burke).

Per quanto riguarda la forma:

Voltaire: ogni legge deve essere chiara e coerente; interpretare la legge quasi sempre vuol dire corromperla. La legge non deve essere in contrasto con la consuetudine, deve prevalere la consuetudine. Beccaria: non c’è cosa più pericolosa dell’idea che bisogna cogliere un presunto “spirito” della legge; è invece la lettera della legge che il giudice deve esaminare.

Madison: le leggi penali non devono essere retroattive (ex post facto).

Bentham (v. postea): la legge è lo strumento per produrre la massima utilità per il maggior numero.

Utilitarismo

[Hume, Beccaria] Bentham

In materia di diritto le teorizzazioni dell’illuminismo e dell’utilitarismo inglesi non hanno conseguenze al di fuori del campo dottrinale, cioè sul diritto positivo; il common law era troppo radicato.

Bentham, Delle leggi in generale (1800?)

Va considerato il fondatore del positivismo giuridico nella forma moderna (precursore era stato Hobbes). Teoria della norma come comando (fondamentale la sanzione). Il diritto è reso valido dal sovrano (inteso anche come pluralità di organi che si ripartiscono i poteri). [Questa concezione del diritto è in genere attribuita a Austin, ma perché questa opera di Bentham è stata scoperta solo a metà del ‘900.] La legislazione al posto del common law, in modo da realizzare l’assetto giuridico che determina il massimo benessere. (v. FP)

Codificazione e positivismo giuridico

(‘800)

Esaurimento del giusnaturalismo

Due spiegazioni dell’eclissi del diritto naturale: 1) la codificazione. Le facoltà giuridiche dovevano insegnare il diritto non come teoria, ma solo i codici napoleonici; 2) una volta che le norme di diritto naturale si positivizzano (con la codificazione), il giusnaturalismo raggiunge il suo obiettivo ed esaurisce la sua funzione. La codificazione diventa l’involontario ponte fra giusnaturalismo e positivismo giuridico.

La legge, sistematizzata nei codici, acquista il monopolio nel manifestare il diritto. Essa è l’unica fonte del diritto: non lo è più il diritto giurisprudenziale, perché ai giudici viene tolto il potere di statuire il diritto e resta loro solo quello di applicarlo; non lo è più la consuetudine o il diritto tradizionale di impronta romanistica o comune perché, soprattutto in Francia, con la rivoluzione si fa tabula rasa del passato. Questo indirizzo si chiama legalismo o positivismo legale.

Positivismo

È la corrente di pensiero che identifica il diritto esclusivamente con il “diritto positivo”, inteso come diritto posto (da una volontà umana), cioè vigente ed effettivo. Il p. g. pretende di essere un approccio scientifico al diritto, di studiare e descrivere il diritto com’è e non come si vorrebbe che fosse.

Sebbene la distinzione fra diritto naturale e diritto positivo si ritrovi già nel pensiero antico, il giuspositivismo propriamente inteso sorge soltanto alla fine del ‘700. Sul piano teorico, la sua origine può essere considerato il Trattato del diritto naturale come filosofia del diritto positivo (1798) del tedesco G. Hugo. Un contributo rilevante è fornito dall’analytical jurisprudence dell’inglese J. Austin (La determinazione del campo della scienza giuridica, 1832). Ma esso celebra i propri fasti nell’800 in Germania (Puchta, Winscheid, Merkl, Bergbohm, Gerber).

Il p. g. si pone in diretta contrapposizione con il giusnaturalismo: è vano ricercare una fondazione naturale o metafisica del diritto. È impossibile trovare, con la ragione, regole di comportamento valide per tutti. Il diritto è una mera tecnica di controllo sociale, consistente nel minacciare e applicare sanzioni; i fini di questa tecnica possono essere i più diversi. I due elementi centrali del p. dunque sono l’idea che il diritto sia necessariamente coercitivo e l’idea che esso può avere qualsiasi contenuto.

L’unico dato che lo studioso del diritto deve prendere in considerazione è la validità formale delle norme, cioè il fatto che siano emanate secondo le procedure legittime dalle legittime autorità. La validità è separata dalla moralità. I criteri di validità di una norma sono formali, procedurali.

In questo modo tale dottrina si propone di separare la scienza del diritto dalle altre scienze sociali per giungere a un approccio “avalutativo”.

I due elementi centrali del p. g. sono il formalismo e l’imperatività.

Analisi formale del diritto: il diritto non è il contenuto delle norme, ma la loro struttura formale. Il diritto può avere qualsiasi contenuto. L’unico dato che lo studioso del diritto deve prendere in considerazione è la validità formale delle norme, cioè il fatto che siano emanate secondo date procedure dalle legittime autorità. La logica formale prescinde da ogni contenuto, inteso sia in termini valoriali sia di realtà storico-sociale empirica. I fini che l’ordinamento giuridico persegue e i presupposti sociali da cui esso deriva sono fenomeni extra-giuridici che non interessano lo studioso del diritto. La validità è separata dalla moralità. I criteri di validità di una norma sono formali, procedurali. Scompare la questione della legittimità, che viene riassorbita nella legalità.

Dal formalismo discendono alcune caratteristiche costanti del p. g.: la teoria della completezza del diritto (assenza di lacune) e quella della coerenza (assenza di antinomie): il diritto è un sistema unitario, coerente e completo, e fornisce soluzioni a tutti i casi concreti. Supremazia della legge sulle altre fonti.

Imperatività: il diritto è necessariamente coercitivo. Esso consta esclusivamente di comandi, che si distinguono dalle norme non giuridiche per la coattività, fornita ad essi dalle sanzioni. L’elemento fondamentale della giuridicità è la sanzione. Il diritto è il mondo del dover essere; il mondo dell’essere, della realtà, è l’oggetto di studio degli scienziati e dei sociologi.

Da quanto detto si ricava che una norma è giuridica solo se è emanata da un determinato ente sovrano, anche se viola un principio morale. Dunque per conoscere il diritto è sufficiente sapere: chi è il sovrano, il modo in cui esprime i comandi e quali comandi siano muniti di sanzione (Austin).

Il diritto dunque è una mera tecnica di controllo sociale, consistente nel minacciare e applicare sanzioni, alla quale ricorrono le società per influire sul comportamento degli individui.

È così esplicitata la separazione fra diritto e morale (separation thesis). Il p. g. si propone di separare e rendere autonoma la scienza del diritto dalle altre scienze sociali, per giungere a un approccio “avalutativo”. Autonomia del diritto, che non ha il suo fondamento in altri sistemi normativi o fattuali, come la religione, la morale, l’utilità o la politica. Una norma giuridica è valida non perché è morale o utile, ma in quanto norma giuridica; cioè perché è conforme al diritto positivo, cioè al diritto posto dal legislatore secondo le procedure di quel dato ordinamento. Per i giuspositivisti la questione del diritto “giusto” non riguarda la scienza giuridica. Compito del giurista è quello di descrivere la realtà giuridica a prescindere dai punti di vista valutativi e morali; e tale oggettività è possibile, perché, grazie al suesposto criterio formale, è possibile individuare ciò che è riconosciuto come diritto all’interno di una data comunità sociale.

Spesso la tesi della separazione del diritto dalla morale si congiunge con la tesi del “relativismo dei valori” (J. Waldron) o dello scetticismo (Kelsen, Ross, v. infra): i criteri di giustezza del diritto sono sempre di natura soggettiva; tutte le asserzioni morali relative a come il diritto dovrebbe essere rivelano un carattere “non cognitivo”, costituiscono cioè manifestazioni di sentimenti, espressioni di volontà, desideri, preferenze non fondabili e dimostrabili razionalmente. I contenuti del diritto variano da paese a paese e da un’epoca storica all’altra. Tuttavia autori come il primo Hart (1958), C. Nino e M. Hartney hanno sostenuto che il giuspositivismo non implichi il soggettivismo e il non cognitivismo etico: il positivismo giuridico è semplicemente una teoria su ciò che è diritto (le regole che derivano da fonti sociali) ed è indipendente dalla questione relativa alla natura, soggettiva o oggettiva, dei nostri giudizi morali. In sostanza, il sostenitore di un’etica oggettivista può essere un giuspositivista, cioè può riconoscere che, ad esempio, in una società tutti seguono una norma che egli ritiene in contrasto con la morale oggettiva (da lui sostenuta); oppure che l’autorità x, da tutti considerata un’autorità normativa, promulga tale norma (tesi di R. Caracciolo).

Critiche

1) Nasconde le scelte di valore operate dai legislatori o dagli interpreti. Nonostante il suo apparente realismo, questa concezione si rivela inadeguata a rappresentare il ruolo effettivo delle norme giuridiche nella società: la volontà dell’autorità non è cieca o casuale o completamente arbitraria, ma ha determinati presupposti nella vita associata, che preesistono alla deliberazione della norma. I comportamenti, i valori, gli interessi esistenti in una società condizionano le norme, e la loro conoscenza è indispensabile per interpretare e applicare le norme.

2) Sacralizzando il comando dell’autorità politica, fonte esclusiva dell’ordinamento giuridico, il p. g. diventa l’ideologia dello statalismo; e, quando ne assume le forme, del totalitarismo. Il diritto è ridotto a semplice voce del potere. Si giustifica lo status quo.

Teorie della codificazione (inizio ‘800)

Il cosmopolitismo del diritto e della legislazione si attenua soltanto col sorgere del nazionalismo romantico. Sul fronte del pensiero giuridico, l’800 è il secolo della Germania. Soprattutto in Germania (Savigny) i giuristi reagiscono all’importazione dei sistemi giusrazionalisti, in quanto la codificazione cristallizzerebbe un diritto che deve essere prima di tutto vita, espressione dello “spirito del popolo”. L’idea di un diritto universalmente valido perché dettato dalla ragione è considerato dallo storicismo romantico un’ingenuità; i concetti posti a fondamento del giusnaturalismo sei-settecentesco – stato di natura, contratto sociale – sono irrisi come astrazioni mitologiche volte a spiegare con l’opera della ragione la formazione e lo sviluppo delle società, che sono invece spontaneo prodotto di forze irrazionali (o razionali di una più profonda razionalità).

Storicismo giuridico: Savigny, Scuola storica del diritto (Puchta), pandettistica

Nel 1814 Thibaut propone la redazione di un codice civile comune a tutta la Germania; il diritto romano vigente era caotico. Si oppone Savigny (Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione e la scienza giuridica, 1814) e la Scuola Storica da lui creata. Il diritto positivo non può essere ridotto alla legislazione. Esso nasce dallo “spirito del popolo” e/o “della nazione”, come il linguaggio, i costumi, l’organizzazione politica; dunque ha molta importanza l’intero passato di un popolo. La ricostruzione del diritto passa per tre stadi: consuetudine (si studiano e ricercano gli istituti giuridici del passato, in particolare del diritto comune di derivazione romanistica; quando parla di “spirito del popolo” si riferisce alla tradizione colta dei giuristi tedeschi del tardo medioevo, cioè al diritto comune), rielaborazione da parte dei giuristi, legislazione. Evoluzionismo giuridico. Di fatto monopolio da parte dei giuristi dell’elaborazione del diritto. Lo storicismo incrina l’idea giusnaturalista del diritto come sistema di proposizioni valide per ogni tempo ed ogni luogo.

[Critiche: 1) il concetto di “spirito del popolo” rimane sempre nebuloso e indeterminato, quindi non atto ad essere assunto come causa prima di un processo storicamente reale; 2) eccessiva importanza data alla consuetudine rispetto al diritto legislativo, che spesso ha anch’esso realtà storica; 3) riduzione del diritto al fatto, con la negazione di valori superiori alla storia; non vi è altro diritto che quello storicamente attuato.]

La pandettistica è la rielaborazione concettuale e sistematica del diritto romano (il nome deriva dal corpo di regole contenuto nel Digesto, chiamato anche Pandette). L’obiettivo è di costruire un sistema compiuto di diritto, logicamente compatto, ordinato e privo di lacune (in quanto colmabili facendo ricorso all’architettura complessiva dell’edificio). Da alcune definizioni giuridiche e alcuni concetti, ritenuti incontrovertibili, si deducono per mezzo della logica conclusioni giuridiche. Il paradosso è che essa, nata dalla scuola storica, acquisisce un metodo formalistico, volto alla sistemazione logica dei concetti; nega le premesse storicistiche per volgersi a un formalismo astratto. Il positivismo giuridico si trasforma presto in un formalismo. Infatti, dai dati forniti dall’osservazione storica o etnografica, cioè dall’osservazione delle norme “positive” formalmente valide (poste da un ente che aveva il potere di farlo), si astrae e generalizza ottenendo concetti. Ha così grande sviluppo la “dogmatica”, cioè l’elaborazione di concetti giuridici generali sulla base di norme esistenti perché esistenti, ossia come “dogmi”; e fiorisce la “giurisprudenza dei concetti” (Windscheid 1861, Gerber, Laband, Jellinek, Mayer, Bergbohm), la cui espressione più elaborata è la “teoria generale del diritto” (Merkel, 1874), coincidente con il “giuspositivismo teorico” o “formalismo giuridico”. Tale indirizzo è stato definito “positivismo scientifico”, in quanto il diritto è concepito come un corpo di regole scientificamente fondate perché elaborate da tecnici del diritto svincolati da condizionamenti ideologici o politici. Da non confondere con il positivismo legislativo, che assume come dato indiscutibile la legge positiva, mentre la pandettistica presuppone l’esistenza di una scienza del diritto oggettivamente fondata. Ma resta un positivismo perché il diritto è solo il diritto positivo; consta esclusivamente di comandi e/o di norme (poste dallo Stato), che si distinguono dalle norme non giuridiche per il fatto di essere integrati da sanzioni; il diritto è un sistema, unitario coerente e completo; fornisce soluzioni a tutti i casi concreti; la scienza del diritto è autonoma rispetto alle altre scienze.

L’approccio antropologico

È un ulteriore ramo della scuola storica, v. postea Sumner

Giuspositivismo tecnico: Scuola dell’Esegesi

In Francia la riduzione di tutto il diritto alla legge, e dunque alla volontà dello Stato, è teorizzato dalla “Scuola dell’Esegesi” (Aubry, Rau, Troplong), che ha il suo massimo sviluppo fra il 1830 e il 1880. I giuristi si limitano a fare un’esposizione e un’interpretazione (esegesi) dei nuovi codici. Lo studio del diritto è lo stretto commento della lettera della legge, del codice articolo per articolo, secondo l’ordine seguito dal legislatore. L’unico canone di interpretazione della legge è la ricerca dell’intenzione del legislatore. Non vi è diritto – naturale, consuetudinario, giurisprudenziale, dottrinale – diverso da quello posto dallo Stato. Non interessano le considerazioni de jure condendo, cioè di fondazione del diritto. L’innovazione e la riflessione dottrinale si riducono drasticamente.

Questo orientamento di pensiero francese e quello tedesco esaminato sopra sono i due principali filoni che si sviluppano in Europa all’inizio dell’800

Analitical jurisprudence

Austin (Delimitazione del campo della giurisprudenza, 1832)

Si può creare una teoria universale del diritto, considerando non il contenuto ma la forma delle norme giuridiche. Queste sono tali se hanno una determinata struttura, indipendentemente dal loro contenuto.

Distingue il diritto dalla morale; il diritto fondamentalmente è comando: una norma è giuridica se è emanata da un determinato ente sovrano, anche se viola un principio morale. Dunque per conoscere il diritto è sufficiente sapere: chi è il sovrano, il modo in cui esprime i comandi e quali comandi siano muniti di sanzione.

Definizione di legge: è “una norma stabilita per la guida di un essere intelligente da parte di un essere intelligente che ha potere su di lui”. Gli elementi essenziali di un sistema giuridico sono quattro: comando, sanzione, dovere e sovranità. Le leggi sono comandi di fare o non fare una cosa. Ciò che distingue i comandi dalle espressioni di desideri è la sanzione (la teoria è positivista anche nel senso che un sistema giuridico è quello composto da norme con sanzioni osservabili). Il dovere dunque è definito in termini di timore delle sanzioni. Il sovrano è quella persona o quell’organo a cui il grosso della popolazione deve obbedienza, mentre esso non deve obbedienza ad alcuno. Il sovrano non è limitabile (da alcuna legge fondamentale) ed è indivisibile (in più organi; altrimenti si distrugge il potere sovrano).

Relativamente alla common law, i giudici sono tacitamente autorizzati dal sovrano (Parlamento) a produrre diritto.

Alcune nozioni giuridiche – dovere, diritto soggettivo, libertà – sono componenti necessarie di ogni sistema giuridico; senza di esse non potrebbe darsi diritto.

Dunque per A. non sono diritto né il diritto naturale, né la legge di Dio, né il diritto consuetudinario (a meno che non sia tollerato, e quindi legittimato, dal sovrano), né il diritto internazionale.

Critiche: 1) non tutte le norme giuridiche sono del tipo “imposizione di doveri”; esistono ad esempio norme che conferiscono poteri, come quelle che predispongono strumenti  per consentire alle persone di compiere certi corsi di azioni come il matrimonio, il testamento, la donazione ecc. In questi casi la nullità dell’atto non può essere equiparata alla sanzione, come sostengono i teorici del comando: non si viene puniti per non aver seguito le procedure corrette nel diritto civile, tutto ciò che accade è che gli individui non riescono a perseguire il proprio progetto. Norme che conferiscono poteri sono considerate anche quelle costituzionali che definiscono i poteri di organi come ad esempio il legislativo; se questo organo legifera oltre i suoi poteri, la conseguenza è che la legge non ha effetto, non la sanzione. 2) Se non si considerano leggi le norme procedurali che stabiliscono chi è il sovrano (le norme costituzionali), non c’è modo di distinguere fra gli atti pubblici e gli atti privati del sovrano.

John Mill

Welcker (teoria del riconoscimento)

1813 – In contrapposizione alle dottrine giuridiche che enfatizzano il momento della coazione, il liberale tedesco Welcker sostiene che è il riconoscimento che rende il diritto giusto e che costituisce il fondamento formale ultimo dell’ordinamento giuridico. Il diritto “vero” è quello che gli individui riconoscono, esplicitamente o tacitamente. Dunque il diritto preesiste allo Stato, non lo presuppone. Quindi accordo fra i consociati.

Postkantiani

Humboldt, Reinhold, il primo Fichte, Schelling, Krause, Stahl, Herbart. I primi tre seguono Kant nella concezione rigorosamente formale del diritto, inteso come la condizione a priori di una coesistenza degli individui che garantisca la loro libertà esterna. Schelling è un idealista che giungerà a subordinare l’individuo allo Stato, seguito da Krause e Stahl.

Idealismo

Hegel, Croce, Gentile

Hegel  Lineamenti di filosofia del diritto (1821)

La filosofia del diritto è una parte della filosofia, e si occupa del concetto di diritto. Lo spirito si svolge in tre momenti: Spirito soggettivo, Spirito oggettivo e Spirito assoluto. Il diritto è il momento astratto dello Spirito oggettivo. [Fassò: H. fa filosofia del diritto finché parla di famiglia e di società civile; ma quando conclude il suo sistema con lo Stato, in cui l’individuo perde ogni valore, e dunque perdono significato i rapporti fra gli individui, si ha un superamento del diritto. Se si nega la molteplicità dei soggetti, non ha senso parlare di diritto, che è sempre relazione fra soggetti].

Favorevole alla codificazione intesa come registrazione del diritto già esistente, non come creazione di diritto nuovo.

Italiani nell’età del Risorgimento

Romagnosi, Cattaneo: eclettici, la componente principale è il sensismo e il naturalismo

Rosmini:

Mazzini, Mamiani, Mancini

Socialismo

Socialismo utopistico – Per la filosofia del diritto esso non presenta interesse poiché questi autori non si pongono il problema specifico del diritto, tranne Proudhon, che ha un’impronta giusnaturalistica.

Feuerbach – Hegel per guardare all’assoluto e all’universale perde di vista la realtà naturale, corporea. L’uomo è costituito dalla coscienza, ma così come essa si sviluppa nell’ambiente reale, sotto il peso delle necessità anche materiali. Marx attinge a questo materialismo umanistico ma lo corregge con la dialettica.

Marx, Engels

Marx – Il diritto non è un sistema di principi prodotti dalla ragione in maniera neutrale, sovratemporali e immutabili, bensì un riflesso delle relazioni fra gli uomini così come sono determinate dalla struttura produttiva. In particolare, il diritto esprime i punti di vista e gli interessi delle classi dominanti, le quali grazie ad esso esercitano il loro dominio sulla classe dominata. Dunque in M. non vi è una teoria del diritto, che è già implicita nella concezione dello stato.

Il principio di giustizia comunista è: da ciascuno le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni.

Lassalle, Menger, Pashukanis (1928), Renner (1949)

Irrazionalismo

Schopenauer (1819), Kierkegaard (1840), Stirner (1844), Nietzsche (1883), Lamennais (1833), Tolstoj (1910), Dostoevskij

L’atteggiamento nei confronti del diritto è negativo, e va dalla svalutazione al rifiuto al disprezzo. Il diritto è razionalizzazione della vita sociale; se questa viene negata, viene negato anche il diritto.

Positivismo filosofico (giurisprudenza sociologica)

Il diritto dipendente dall’evoluzione sociale.

Comte – Nel terzo stadio, quello positivo (i primi due sono quello teologico e quello metafisico), il diritto scomparirà. All’opera dei giuristi si sostituirà l’opera dei sociologi, veri scienziati sociali.

Spencer

Sumner – È il maggior esponente dell’approccio antropologico; precursori possono essere considerati Vico e Montesquieu. È una teoria evoluzionistica del diritto: tutte le società, dal punto di vista giuridico, si sviluppano passando attraverso fasi che sono le stesse ovunque: prima fase le sentenze di re su ispirazione divina (es. periodo omerico), poi le consuetudini, poi le codificazioni (Grecia antica, 12 Tavole), poi l’equity e la legislazione.

Kirchmann (1847) – Poiché per scienza K. intende le scienze della natura, il diritto non potrà mai avere valore scientifico, per la mutevolezza del suo oggetto e la transitorietà delle leggi positive.

Ardigò (1879, 1886)

Diritto naturale nell’800

Nell’800 il diritto naturale è rintracciabile solo nella dottrina ufficiale della chiesa cattolica. Fra i teorici unico esponente Rosmini.

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Neokantiani

Radbruch, Stammler (1902) – Reazione contro il positivismo codice-centrico. Formalismo: tentativo di far riemergere una teoria universale del diritto prescindendo dai contenuti; esiste un diritto giusto, ma i suoi contenuti sono mutevoli (non viene suggerita alcuna norma particolare).

Distinzione tra positivismo filosofico e positivismo giuridico. Per il primo la teoria del diritto si risolve nella sociologia.

Antiformalismo, realismo

Il diritto deve rispecchiare la concreta, storica realtà della società, guardando al di là della pagina scritta della legge (le sole vere norme del diritto sono quelle dello Stato). Diritto non è la norma giusta (in base a una certa etica filosofica) o la norma valida (secondo un dato ordinamento), ma la regola efficace che viene emergendo dalla vita vissuta degli uomini.

Giurisprudenza sociologica o g. degli interessi

Jhering (Lo scopo nel diritto, 1877) – L’origine di tutto il diritto è lo scopo, cioè ogni norma giuridica è determinata da un motivo pratico; inteso in senso alto, come necessità da soddisfare perché una data società sopravviva.

La forza è la matrice del diritto, e poiché lo Stato è lo strumento massimo della forza, statualità del diritto.

Heck

von Rumelin

Sociologia giuridica

Weber – Si parte dai comportamenti degli individui, e dalle rappresentazioni che essi hanno del modo in cui devono comportarsi. Queste rappresentazioni fanno sì che l’agire si orienti in vista di determinate aspettative, che hanno una certa probabilità di realizzarsi (es. ricevere un bene se ho pagato il prezzo).

Un ordinamento è caratterizzato dalle pretese unilaterali o dalle pretese bilaterali (accettate) intercorse tra gli individui.

Ehrlich (Fondazione della sociologia del diritto, 1913) – La sociologia del diritto è la sola dottrina scientifica del diritto. Il diritto è “diritto vivente”, cioè l’insieme di regole secondo le quali gli uomini si comportano realmente nella vita reale. Gli istituti giuridici traggono origine dalla società, non dallo Stato: il matrimonio, la successione, il contratto ecc. non sono stati introdotti mediante norme giuridiche, preesistevano ad esse. Dunque bisogna indagare la società (organizzazione, valori, strutture, istinti, costumi) per conoscere il vero diritto. Pluralità degli ordinamenti giuridici contro la giuridicità del solo ordinamento dello Stato.

Movimento del diritto libero

Kantorowicz (La lotta per la scienza del diritto, 1906) –  È una risposta contro l’aderenza eccessiva, e spesso assurda, alla lettera della legge. Prima del diritto statuale esiste il “diritto libero” (analogia con “libero pensiero”, atteggiamento non dogmatico), prodotto dalle opinioni dei membri della società e degli studiosi e dalle sentenze dei giudici. Nel plasmare il diritto un maggior ruolo per il giudice, che decide caso per caso sulla base della sensibilità comunitaria.

La giurisprudenza dei concetti crede di aver costruito una rete omogenea di regole in grado di rispondere scientificamente ad ogni problema; ma le lacune nell’ordinamento giuridico sono inevitabili perché la realtà sociale è troppo complessa rispetto alla legislazione. In caso di lacune l’ordinamento giuridico non si autocompleta, spetta all’interprete (giudice) colmare il vuoto applicando la soluzione che gli sembra giusta. (Il codice civile tedesco del 1900 aveva introdotto concetti vaghi come “buona fede” nelle obbligazioni, o “buoni costumi” per la validità dei contratti, o “giusta causa”, che impongono un giudizio discrezionale dell’interprete.)

In una prospettiva di lungo periodo, il movimento mirava alla modernizzazione del diritto attraverso il reciproco permearsi di diritto e sociologia.

[Kelly: dopo la Seconda Guerra Mondiale tale movimento scompare dall’occidente: gli arbìtri giuridici del nazismo indussero una rivalutazione del positivismo, in quanto la rigida lettera della legge assicurava certezza e protezione contro l’arbitrio.]

Geny, Saleilles, Ripert

Altri autori di fondamento sociologico : Gierke, Duguit, Hauriou

Von Gierke: contro l’atomismo del diritto romano, valorizzazione del diritto tedesco, nel quale comunità e corporazione sono valori di gran lunga più importanti. Lo Stato e ogni altro gruppo sociale non sono frutto di un contratto ma una persona reale e quasi tangibile, di ordine trascendentale, generata dagli atti comuni dei suoi membri. Uno dei maggiori esponenti del collettivismo metodologico novecentesco.

Giurisprudenza sociologica (Dewey, Holmes (1897), Pound (1921, 1951), Cardozo (1921)) e Realismo giuridico (negli Stati Uniti usati come sinonimi)

realismo giuridico americano: Llewellyn (1933), Frank (1930), Bingham, Oliphant, Cohen

È la reazione a tutti i tipi di formalismo, che vedevano la decisione giudiziaria come una deduzione logica da una norma generale. Il cosiddetto “periodo classico” della cultura giuridica americana, corrispondente all’ultimo trentennio del XIX secolo, ha come tratto distintivo lo sforzo di sistematizzazione, razionalizzazione e categorizzazione del common law. La massa caotica di precedenti “da incubo” spinge all’introduzione negli Stati Uniti di una concezione sistematica e scientifica del diritto, analoga a quella promossa nel Regno Unito dall’analytical jurisprudence di Austin, in Francia dalla “Scuola dell’Esegesi” e nei territori tedeschi dalla pandettistica. La pratica giudiziaria del periodo classico asseconda questo processo di astrazione e di generalizzazione del diritto, favorendo ad esempio una rigida separazione tra il diritto pubblico e il diritto privato, e riorganizzando quest’ultimo attorno a pochi concetti generali, quali quello di ‘volontà’ in materia di contratti o quello di ‘colpa’ nell’area dei torts.

Il realismo giuridico americano è la reazione a tale metodo di deduzione da concezioni predeterminate. Esso concentra l’attenzione sul ruolo indipendente che hanno le corti nella creazione del diritto (Holmes: il diritto è la previsione di ciò che faranno i tribunali, non l’insieme delle norme); nei processi decisionali delle corti le norme svolgono un ruolo trascurabile. Il realismo tiene conto in particolare dei fattori sociologici che determinano le decisioni giudiziarie; dietro il testo scritto sono all’opera cioè valori invisibili e nascosti, che determinano il caso giudiziario particolare. Le norme giuridiche hanno una “struttura aperta” che consente alle corti decisioni che tengono conto della concreta realtà fattuale (e incidono su di essa). Dunque le norme vengono ridimensionate al ruolo di strumenti utili per predire le decisioni delle corti; ma non i soli. Le norme perdono il loro carattere normativo di prescrizione dei comportamenti, e diventano “fatti” empiricamente constatabili al fine di un’investigazione scientifica della società.

La certezza del diritto non esiste, è un infantile bisogno di sicurezza; la sentenza del giudice non è prevedibile, perché non è frutto di ragionamento ma di intuizioni (Frank).

Un secondo aspetto del realismo è l’interesse per la legge come strumento di controllo sociale (dopo aver raccolto tutte le informazioni sociologiche possibili); Holmes era un utilitarista favorevole all’ingegneria sociale (funzione sociale del diritto) a scapito dell’individualismo incorporato nel common law.

Le valutazioni etiche non riguardano chi si occupa di diritto, il quale deve indagare soltanto sulla possibile decisione del tribunale. Dovere non è che la necessità per un uomo di comportarsi in modo tale che il tribunale non gli infligga una sanzione; che poi tale comportamento sia morale o immorale per il giurista non ha importanza.

Realismo giuridico scandinavo: Hagerstrom (1900), Lundstedt (1936), Olivecrona (1939, 1962), Ross (1952, 1961), Castignone (1974, 1995), Guastini, Pattaro – Rispetto al realismo americano tende alla sistematicità, e si concentra sugli aspetti psicologici, cioè sull’insieme delle reazioni mentali a parole quali “diritto” e “dovere”. Una conoscenza scientifica del diritto si può avere solo attenendosi alla realtà empirica, ai fatti. I concetti di diritti soggettivi o doveri giuridici sono solo fantasie della mente umana, metafisica, risultato dei condizionamenti e dell’educazione ricevuta. Queste evocazioni però si traducono in fatti: se io sono persuaso di avere un dovere, o credo di avere un particolare diritto, e così via, nascerà in me un certo stato mentale, con probabili conseguenze esterne; la mia convinzione è ciò che è “reale” nel diritto. Ciò che rende vincolanti le norme è una “predisposizione soggettiva all’obbedienza”, un elemento psicologico oggettivamente riscontrabile nella realtà. Dunque l’obbligatorietà di una norma non è riconducibile alla sua radice etica, o alla volontà dello Stato, ma al fatto che essa viene concretamente osservata.

Ovviamente viene rifiutata non solo ogni idea assoluta di giustizia, ma l’intera concezione giusnaturalistica. È escluso ogni elemento valutativo, il diritto è soltanto un insieme di regole per gli organi dello Stato.

Olivecrona applica questa teoria ad una modalità del diritto, la legislazione.

Ross pone i giudici in una posizione preminente, e dunque dà importanza all’aspettativa, per i singoli, di quanto i giudici decideranno. Le norme giuridiche sono direttive che hanno lo scopo di indirizzare sia i giudici sia i cittadini a comportarsi in un certo modo desiderato. Dunque le norme non sono asserzioni. Una norma è valida se è efficace; tale efficacia va verificata nel comportamento dei giudici quando sentenziano; solo il fatto consente la conoscenza scientifica (neopositivismo: un’asserzione, per essere valida, deve essere empiricamente verificabile).

Giusrealismo: G. Tarello (1980)

Correnti che possono essere considerate epigoni del movimento:

Analisi economica del diritto (v. postea)

Law and Society

Empirical Legal Studies

New Public Interest Law

Istituzionalismo

S. Romano (L’ordinamento giuridico, 1918) – Teoria antinormativistica: secondo la teoria normativista, l’atomo-norma è l’elemento centrale e qualificante del diritto; è sufficiente indagare sulla norma per comprendere la natura del diritto. Contro il positivismo della “giurisprudenza dei concetti”; considerazione puramente empirica del diritto, senza valutazioni filosofiche. Il diritto, prima di essere norma, è organizzazione, struttura; è ordinamento giuridico considerato complessivamente (cioè istituzione, che è ogni ente o corpo sociale). Le chiese, le organizzazioni private, persino le organizzazioni criminali possiedono il carattere della giuridicità, in quanto sono istituzioni strutturate, che impongono ai propri membri una serie di comportamenti[3]. Non importa che le sanzioni abbiano natura penale, cioè siano imposte dallo Stato. L’i. scuote il dogma della statualità del diritto, insiste sull’origine sociale del diritto e rafforza il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici.

Sul piano metodologico si ispira a correnti sociologiche, privilegiando il dato sociale rispetto a quello individuale, affermando il gruppo sociale come realtà organica, distinta dai singoli individui e anche prevalente – come valore – su di essi.

Hauriou

Schmitt (1930) – Il diritto si risolve nella decisione politica. Nello stato di eccezione deve decidere il sovrano. L’esperienza politica vive dove c’è l’opposizione amico-nemico.

Positivismo giuridico nel ‘900

Kelsen (Teoria generale del diritto e dello Stato, 1945; Teoria pura del diritto, 1960)

La scienza (e anche la scienza del diritto) non è in grado di pronunziare giudizi di valore, quindi non vi è autorizzata. Compito dello scienziato del diritto non è quello di fondare un ideale di giustizia, ma di conoscere l’oggetto del suo studio: il diritto. Cerca di rispondere alla domanda: che cosa è e come è il diritto, non come deve essere. Questo non significa che valori etici non influenzino il diritto, ma che la loro valutazione non è compito della scienza giuridica.

Analisi formale del diritto: il diritto non è il contenuto delle norme, ma la loro struttura formale.

Autonomia del diritto, che non ha il suo fondamento in altri sistemi normativi o fattuali, come la religione, la morale, l’utilità o la politica. Una norma giuridica è valida non perché è morale o utile, ma in quanto norma giuridica; cioè perché è conforme al diritto positivo, cioè al diritto posto dal legislatore secondo le procedure di quel dato ordinamento. La questione del diritto “giusto” non riguarda la scienza giuridica.

Il diritto è il mondo del dover essere[4] (Sollen; il mondo dell’essere, della realtà – Sein –  è l’oggetto di studio degli scienziati e dei sociologi). La norma giuridica si distingue dalle altre specie di norme per la coattività.

La norma giuridica è espressa nella forma del giudizio ipotetico: se si verifica un evento A (l’illecito), allora deve seguire l’evento B (la sanzione). Tale nesso è dato dal principio di imputazione, cioè dal fatto che la volontà di qualcuno (lo Stato) ha attribuito una data conseguenza (sanzione) ad una data condizione (illecito).

L’elemento fondamentale della giuridicità è la sanzione. È questa che distingue un dovere giuridico da un dovere morale.

L’ordinamento giuridico è costituito da norme poste in una relazione di dipendenza. La norma obbliga in virtù del comando di una norma superiore. Ad esempio, una multa per sosta vietata dipende da un regolamento di un ente locale; il potere di emanare questo regolamento dipende da una legge del parlamento (che conferisce tale potere agli organi locali); a sua volta il potere di approvare la legge del parlamento dipende dalla Costituzione; e così via in una costruzione “a gradini”. Altro esempio: perché un giudice sia obbligato a infliggere una sanzione a un colpevole, occorre che esista una norma ulteriore che dia una sanzione (al giudice) per la mancata imposizione della sanzione, e così via. Al vertice come detto c’è la costituzione; per dare fondamento giuridico anche alla costituzione, e non risalire all’infinito, si presuppone una “norma fondamentale” il cui contenuto è: “Ogni norma giuridica legittima (cioè statuita in conformità col diritto) deve essere osservata”. La norma fondamentale, più che una norma intesa come proposizione linguistica, è un atteggiamento delle persone che fanno parte di un dato ordine giuridico, le quali riconoscono un certo numero di norme o riconoscono come legittime determinate autorità che emanano le norme. [Critica dell’escamotage della Grundnorm: la psicologia e l’etica, che dovevano restare esclusi dalla teoria, vi rientrano.]

Da tale impostazione discende una serie di conseguenze teoriche:

1) differenza fra validità ed efficacia della norma: una norma è valida se, grazie alla sanzione, è coercitiva (e ha seguito le procedure di emanazione previste dall’ordinamento); l’efficacia riguarda il comportamento effettivo degli individui: una norma valida può essere inefficace o poco efficace se molte persone in concreto la violano.

2) Scompare il confine fra diritto pubblico e diritto privato: il diritto è un sistema privo di soluzioni di continuità; le norme di quello che viene chiamato diritto privato dipendono dai presupposti politici della società, dunque ricevono legittimazione o sono concatenate con norme di quello che viene chiamato diritto pubblico.

3) Scompare la differenza fra diritto soggettivo (right) e diritto oggettivo (law): il primo non è altro che il secondo, nel senso che è l’insieme di norme che obbligano gli altri a non interferire con il soggetto (law) a rendere questo titolare di un diritto (soggettivo).

4) Coincidenza fra diritto e Stato: lo Stato è l’ordinamento giuridico, cioè l’insieme ordinato di norme. I sociologi della politica invece sostengono che lo Stato non è un concetto giuridico, ma un insieme di poteri di fatto, basato quindi su comportamenti, in particolare sul comportamento di obbedienza di alcune persone rispetto al comportamento di comando di altre.

Jurisprudence analitica (o giuspositivismo analitico): Hart, Raz, Marmor.

Hart (The Concept of Law, 1961)

H. innesta nella j. a. austiniana molti elementi di kelsenismo, in quanto la teoria di Austin della norma come comando rinforzato da sanzione è insoddisfacente. Un sistema giuridico è un sistema di norme, con relazioni interne. Distinzione fra norme primarie e norme secondarie: le prime sono quelle che regolano i comportamenti (che impongono obblighi) e quindi determinano il “contenuto” del sistema giuridico (norme penali e civili); le seconde sono quelle che conferiscono poteri, dunque si occupano della produzione delle norme primarie (regole sul funzionamento del legislativo o del giudiziario; es. art. 70 C. italiana che conferisce alle Camere il potere legislativo; oppure, nel diritto privato, le norme che prescrivono le formalità per redigere un testamento. Per il positivismo contemporaneo le costituzioni nella loro interezza vengono considerate come facenti parte delle norme secondarie).

Il diritto è una relazione fra norme primarie e secondarie. Un’importante norma secondaria è la norma di riconoscimento: essa è una norma costituzionale ultima che serve a identificare le norme primarie valide; consiste prevalentemente di una consuetudine o convenzione (es. la norma sulla sovranità parlamentare), ma potrebbe consistere anche in una disposizione espressa (es. l’art. 1 delle preleggi che elenca le fonti del diritto italiano), anche particolarmente complessa (l’intera costituzione americana). La norma di riconoscimento di Hart, dunque, a differenza della Grundnorm di Kelsen, è una norma realmente esistente.

La norma di riconoscimento è la soluzione proposta da H. al problema del fondamento dell’autorità del diritto e dell’obbligo giuridico: l’autorità del diritto riposa su una norma sociale la cui legittimità come fondamento ultimo deriva dalla sua efficacia, dal fatto cioè di essere effettivamente seguita. In questo modo H. tenta di spiegare, e conciliare tra loro, due intuizioni sulla pratica giuridica in genere poste su piani diversi: la prima è che la nozione di diritto ha una dimensione pratica, ci dice come dobbiamo comportarci (piano del dover essere); la seconda è che il diritto è un fenomeno sociale che può essere studiato da osservatori esterni e distaccati (piano dell’essere). La norma di riconoscimento di H. riuscirebbe a mettere in relazione i due piani senza violare la legge di Hume[5].

Le norme secondarie, in quanto attribuiscono facoltà, non rientrano nella categoria dei comandi (come sosteneva Austin).

Separazione tra diritto e morale, nel senso che per il diritto bastano le caratteristiche formali ora viste; ma H. ritiene che ai fini della validità delle norme devono sussistere alcuni requisiti minimi che sono precetti etici, in particolare l’autoconservazione (protezione delle persone) e la proprietà (protezione delle cose).

Critica al realismo giuridico: è vero che nessuna legge può provvedere specificamente per ogni specifico caso, che tutte le norme hanno inevitabilmente una struttura aperta, quindi con margini di interpretazione da parte dei giudici; ma comunque i giudici partono dalle norme, considerano se stessi amministratori delle norme. Pretendere che non esista alcun limite all’area della struttura aperta, cioè alla libertà dei giudici di interpretare a piacimento, significa ignorare il modo in cui le norme operano nel mondo reale.

Raz (Authority, Law and Morality, 1994) – La natura del diritto, il suo senso proprio, deve essere compresa alla luce del modello della risoluzione autoritativa di conflitti e dispute; che avviene mediante l’attribuzione, a un individuo o un gruppo di individui, del compito di fornire alle parti ragioni protette d’azione.

Positivismo giuridico esclusivo

Raz 1979 e Shapiro sono esponenti del positivismo giuridico esclusivo, per il quale la determinazione di ciò che è diritto non può dipendere da criteri morali. La morale non può essere condizione di validità del diritto.

Positivismo giuridico inclusivo (W.J. Waluchow, J.L. Coleman, J.J. Moreso, Waldron)

Questa corrente nasce come risposta alle critiche di Dworkin al positivismo (incapacità di dare conto dei principi morali quali fonti vincolanti del diritto) e si basa sulla rilettura del Postscript a The Concept of Law di Hart.

Differisce dal positivismo giuridico esclusivo perché sostiene che la determinazione di ciò che è diritto può dipendere (o non dipendere) da criteri morali; cioè un sistema giuridico può rimettersi o non rimettersi a criteri morali (vi sono sistemi giuridici che si rimettono e sistemi giuridici che non si rimettono alla morale). In particolare le fonti del diritto – costituzioni, leggi – possono includere concetti morali.

Positivismo etico o normativo (U. Scarpelli, T.D. Campbell, J. Goldsworthy, J. Waldron)

Una terza versione è il positivismo etico o normativo: la determinazione di ciò che è diritto non deve dipendere da criteri morali. Ha un carattere prescrittivo: ciò che è diritto deve poter essere identificato senza fare ricorso alla morale.

Questa posizione è basata sul seguente argomento: vi è disaccordo in tema di morale, cioè su quali comportamenti siano moralmente corretti; per rispettare la morale soggettiva delle persone, bisogna governare il comportamento umano mediante regole chiare e precise che permettano di determinare con certezza quando determinati comportamenti sono giuridicamente proibiti; ma se per fare ciò si deve fare ricorso al ragionamento morale, allora si produrrà un notevole disaccordo e pertanto la certezza verrà meno; se ne conclude che il diritto deve essere identificato senza fare ricorso alla morale.

Tutte queste versioni del positivismo giuridico contemporaneo aderiscono alla “tesi delle fonti sociali del diritto”: il contenuto del diritto in una determinata società dipende da un insieme di fatti sociali, ossia da un insieme di azioni dei membri di tale società. L’esistenza del diritto non è un fenomeno naturale, indipendente dagli uomini, come ad esempio la sfericità della terra.

Neoistituzionalismo

MacCormick, Weinberger

Reazione al formalismo del positivismo kelseniano-hartiano. Il diritto si colloca sul piano dei fatti empirici. Le norme giuridiche sono funzionali a fini particolarmente rilevanti nella società, come la protezione della vita e della sicurezza e l’allocazione dei beni.

Non-cognitivismo

Impossibilità di una conoscenza oggettiva dei valori. I giudizi di valore non hanno fondamento nella ragione, ma sono soltanto l’espressione delle opinioni arbitrarie di chi li esprime.

Neogiusnaturalismo

Cathrein (1901, 1911), Coing (1947)

Il neogiusnaturalismo non sostiene più l’idea tradizionale del sistema di norme eterne e immutabili, ma le storicizza. Il diritto ha ancora un contenuto etico, da cui si deducono le norme, ma tali norme sono condizionate dal modo in cui in un determinato periodo storico i membri di una determinata società interpretano i valori. I valori, pur assoluti, vengono “scoperti” progressivamente e possono anche essere “dimenticati”.

Radbruch (1946) – Una legge è valida solo se giusta; se viola la giustizia (ad esempio se nega diritti umani fondamentali), ad essa deve essere negato il carattere giuridico. Esiste un diritto sopralegale che giustifica la disobbedienza alle leggi ingiuste (es. quelle del Terzo Reich). È una questione di “soglia”: secondo la cosiddetta “formula di Radbruch”, quando l’ingiustizia del diritto positivo raggiunge una tale soglia che la certezza del diritto non conta più, allora il diritto positivo ingiusto deve cedere di fronte alla giustizia.

Il giusnaturalismo contemporaneo si inserisce nel solco del cosiddetto moralismo giuridico (o perfezionismo), secondo il quale, in contrapposizione al liberalismo, gli individui non dovrebbero essere lasciati liberi di scegliere qualunque valore o fine (anche non danneggiante gli altri, come ad es. l’omosessualità) perché la conservazione della moralità condivisa di una società è un valore che va perseguito con lo strumento coercitivo del diritto. Dal giusnaturalismo tali valori vengono asseriti come “verità etica oggettiva” (una strategia alternativa, seguita dai comunitaristi, è di considerare i valori condivisi quelli da imporre).

Fuller (La moralità del diritto, 1964) – Diritto naturale procedurale: esiste una morale interna al diritto, costituita da una serie di principi – che le norme siano generali, conoscibili, non retroattive, non confliggenti, di adempimento non impossibile, di mutamento non troppo rapido, di applicazione non eccessivamente infedele – ai quali ogni diritto positivo dovrebbe adeguarsi. Procedurale, e non sostanziale, perché F. non indica i contenuti delle norme (se dovesse farlo ne indicherebbe uno, il principio più importante: conservare la comunicazione con i propri simili. La trasmissione da un uomo all’altro delle conoscenze è la base della vita).

Finnis (Legge naturale e diritti naturali, 1980) – Approccio neoclassico al diritto naturale, cioè riprendendo San Tommaso. F. individua sette beni fondamentali: la conoscenza, la vita, il gioco, l’esperienza estetica, l’amicizia, la religione e la ragionevolezza pratica (applicazione della propria intelligenza alla realtà, dunque scelta delle azioni). Questi, ricavabili solo attraverso l’introspezione e la riflessione (auto-evidenti), non attraverso l’osservazione empirica e non dimostrabili, sono le condizioni per lo sviluppo e la realizzazione degli individui. Il diritto deve garantire la realizzazione dei piani di vita degli uomini ispirati a quei sette beni; può fare ciò traducendo in norme giuridiche alcune norme morali inderogabili, come quelle contro l’uccisione, ma anche quelle che vietano il suicidio, l’adulterio, la contraccezione, gli atti omosessuali. Esse poggiano su una solida tradizione che ha basi cogenti sia nella fede sia nella ragione e difendono l’ideale perfezionistico di una vita buona, valido per tutti.

Teoria analitica

Muove dall’esigenza del rigore, dell’ordine e della precisione dell’indagine, e intende soddisfarla mediante la chiarificazione dei procedimenti scientifici, in particolare del modo di funzionare degli strumenti linguistici dell’indagine e dell’uso corretto di essi.

Bobbio – Applicato al diritto, il criterio analitico[6] va inteso come analisi del linguaggio del legislatore. L’opera del giurista ha carattere scientifico se si esplica nel conferire rigore al linguaggio del legislatore, chiarendone le proposizioni iniziali (norme), completandone le regole di trasformazione e ordinandolo in un sistema coerente.

La scienza giuridica deve concentrarsi sullo studio della validità del diritto, lasciando il problema del valore (giustizia) alla filosofia del diritto e dell’efficacia alla sociologia giuridica.

Negli anni ’70 B. vira verso una teoria del diritto di tipo funzionale: il diritto non è un sistema chiuso e indipendente, è un sottosistema rispetto al sistema sociale, e ciò che lo distingue dagli altri sottosistemi (economico, politico, culturale) è appunto la funzione.

U. Scarpelli

G. Tarello

Logica giuridica

Lindhal (1977), Soeteman (1989), Weinberger (1974), von Wright (1963), Conte (1962), Carcaterra (1974)

Scuola di Buenos Aires

Carriò (’60), Alchourron e Bulygin (Normative Systems,1971), Nino

Principale scuola analitica dell’America latina.

La scienza giuridica è caratterizzata essenzialmente dal deduttivismo. Un sistema giuridico, come un sistema deduttivo, è l’insieme degli enunciati giuridici (le norme) che costituiscono la base assiomatica del sistema, più tutte le loro conseguenze logiche.

Le norme sono enunciati condizionali che connettono certe circostanze fattuali (“casi” o “fattispecie”) con determinate conseguenze giuridiche (soluzioni).

Le norme sono espressioni linguistiche, cioè enunciati dotati di un significato definito e costante.

Questa impostazione di tipo logico consente di definire e valutare la completezza e la coerenza di un sistema giuridico. Un sistema è incompleto se contiene anche un solo caso per il quale non vi sia nessuna soluzione, cioè non sia possibile connettere ad esso alcuna conseguenza. È incoerente se per un caso vi sono due o più soluzioni, cioè se si genera una contraddizione normativa o antinomia.

Ermeneutica

Gadamer – Nell’interpretazione di un testo giocano un ruolo importante le convinzioni dell’interprete e il contesto in cui egli opera; dunque la direzione dell’analisi del testo è già tracciata in una fase iniziale di “precomprensione” del testo medesimo.

Critical Legal Studies

Unger (Knowledge and Politics, 1975), R. Gordon,

Critica al liberalismo e alla sua presunta neutralità, da posizione marxiste e di estrema sinistra. I diritti e le libertà sono funzionali agli interessi politici ed economici del liberalismo. Ad esempio, il concetto di libertà contrattuale, presentato come un diritto, serve soltanto ai fini del mercato e agli interessi del capitalismo; così come il principio dello stare decisis.

Per sovvertire tale ordine pietrificato, U. propone dei “controprincipi” che rovescino i principi tradizionali, relegando questi al rango di eccezioni. Il valore principale che informa di sé tali controprincipi è la “comunità”, intesa come l’elemento sociale o altruistico presente nel mondo. Esempi di controprincipi sono quelli che sostengono le pari opportunità nei confronti di tutte le categorie svantaggiate (donne, neri, poveri, handicappati). Dunque, nell’esempio precedente della libertà contrattuale, dovrebbe prevalere il controprincipio per cui prevalgono gli aspetti comuni della vita sociale, dunque un determinato assetto economico-sociale notevolmente egualitario, che la libertà di contratto non può intaccare in maniera sostanziale, rimanendo relegata ad un ruolo marginale. Tali controprincipi rappresentano un punto di partenza per ricostruire un nuovo diritto, sia pubblico che privato.

Neocostituzionalismo

Dworkin, Alexy (1987), Dreier (1991), Nino

Prospettiva fortemente antipositivistica: connessione fra diritto e morale; il diritto non è soltanto il diritto valido, come affermano i positivisti. L’inclusione di contenuti morali nel diritto avviene attraverso l’inserimento dei principi e dei diritti inviolabili degli individui (es. nelle costituzioni). I principi, che sono la sostanza, che sono importanti, vengono contrapposti alla (sacralità positivistica delle) norme, valide in base a caratteristiche formali, in base al principio di legalità.

Nell’epoca del costituzionalismo, i principi non sono più solo norme ausiliarie che servono a interpretare e integrare le regole esistenti, ma rappresentano valori direttivi dell’ordinamento giuridico. I principi hanno la supremazia gerarchica e una diretta dimensione precettiva; si pongono dunque come antecedenti e non, come nella riflessione tradizionale, come posteriori alle regole. In caso di collisione fra principi (uno vieta e l’altro autorizza) non c’è un principio che prevale sempre; si vede il caso concreto, in un caso prevale un principio, in un altro prevarrà un altro principio; questa si chiama relazione di prevalenza; non esiste un ordine gerarchico prestabilito fra i principi. Si noti la diversità rispetto alle regole: per le regole vale la logica del “tutto o niente”, se è valida una regola non può essere contemporaneamente valida una regola opposta; invece fra principi diversi è possibile (e necessaria) la ponderazione o bilanciamento (Alexy).

Implicazioni di tale approccio: 1) Il diritto non si riduce alla legge, è costituito anche dai principi e dai diritti costituzionali; dunque vincolo del legislatore di fronte ai diritti costituzionali.

2) Importanza dei processi di applicazione del diritto, in particolare di quelli giudiziari: ruolo decisivo dei giudici per l’applicazione dei principi e diritti costituzionali, e dunque opera di ponderazione e bilanciamento (e non, come nel positivismo, mera sussunzione del caso concreto alla norma positiva).

Ne I diritti presi sul serio (1977) di Dworkin l’impianto precedente è stato definito neoermeneutica. È la principale teoria rivale di quella di Hart, in particolare è una critica alla avalutatività del positivismo giuridico : gli ordinamenti giuridici non possono essere ridotti a mere strutture normative; accanto alle norme esistono i principi, che rappresentano uno standard che deve essere osservato in quanto è un’esigenza di giustizia o di correttezza o di qualche altra dimensione della morale. La validità di una norma giuridica ha a che fare con i principi che sono alla base di quella norma. I sistemi giuridici non possono essere compresi se non si considerano i valori morali che sono ad essi sottesi. È il giudiziario il soggetto protagonista nel processo giuridico. Il momento interpretativo diviene nel tempo motivo dominante nella costruzione di D. (L’impero del diritto, 1986): nella loro attività interpretativa i giudici tengono conto dei principi morali condivisi in una comunità. I tribunali devono far ricorso ai principi per risolvere i casi difficili. Cade così la rigida distinzione tra diritto e morale.

Sintesi di positivismo e giusnaturalismo

B. Celano – Combina un g. trascendentale con il pluralismo etico e con una posizione nomodinamica vicina al positivismo. Ogni ordinamento della vita associata effettivamente esistente non è mai completamente immorale e malvagio, ma, male che vada contiene alcuni valori o principi etici minimali (g. trascendentale). Il diritto è necessariamente espressione di valori e principi etici oggettivi. Compito del diritto positivo è la determinazione di questi valori e principi. Ma i valori, in ipotesi oggettivi, sono molteplici, confliggenti, incommensurabili e indeterminati. La loro determinazione esige bilanciamento, risoluzione di conflitti, commisurazione di incommensurabili. Il diritto fa ciò mediante una struttura nomodinamica, cioè mediante l’istituzione di poteri normativi. Resta sempre l’antitesi fra definitività e correttezza del diritto, ma in tale interpretazione almeno tale discrepanza si assottiglia. Il diritto dunque non è la rappresentazione di un ordine morale oggettivo (come sostengono i giusnaturalisti ortodossi), ma è comunque espressione di valori e principi etici. È un artefatto umano. Dunque si può essere giuspositivisti senza essere non-cognitivisti in etica.

Evoluzionismo giuridico

Hayek, Leoni, R. Merton, Popper

Luhmann

Il diritto, come altre istituzioni sociali, emerge attraverso processi di natura spontanea, quale frutto dell’interazione degli attori. Alla radice di tale prospettiva c’è l’idea che l’agire intenzionale dei singoli produce necessariamente un esito inintenzionale. Il diritto è un prodotto dell’azione ma non della progettazione umana. Il diritto migliore è quello che sorge da questo processo evolutivo, come frutto del reciproco condizionarsi delle azioni individuali. Invece la legislazione è il paradigma del costruttivismo giuspositivista.

Hayek – Dottrina del rule of law: un sistema giuridico deve essere caratterizzato da un set di regole generali che consentano agli individui di perseguire i propri piani privati con un ragionevole grado di sicurezza e prevedibilità. Il punto centrale della dottrina è che gli individui devono sapere in anticipo come le norme incidono su di loro. Perché ciò avvenga è necessario che le caratteristiche delle norme giuridiche siano le seguenti: 1) le norme devono essere generali nella forma, cioè tali per cui nessun individuo o gruppo si distingua per trattamenti preferenziali; 2) non devono essere retroattive nell’applicazione; 3) devono vincolare chiunque, compreso lo stato. Questo ultimo punto lega il rule of law al costituzionalismo e può essere esemplificato dai sistemi caratterizzati da separazione dei poteri, costituzioni scritte e altri strumenti volti a limitare i funzionari pubblici.

La critica dei sistemi giuridici effettivamente esistenti viene condotta sulla base di criteri procedurali (non morali, come nel giusnaturalismo).

Tale dottrina è principalmente in conflitto con la nozione di sovranità tradizionalmente intesa, perché in un sistema basato sulla sovranità, il potere illimitato attribuito al parlamento (anche se autorizzato dalla regola di riconoscimento) può violare i criteri del rule of law.

L’intervento dello Stato attraverso il welfare e la pianificazione ha dato vita a un diritto statale caratterizzato invece da un’ampia discrezionalità e singolarità, che riduce la prevedibilità e la stabilità per i cittadini.

I sistemi giuridici sviluppano spontaneamente le regole necessarie per la protezione dei liberi scambi fra gli individui e non è richiesto il potere coercitivo dello Stato per renderle valide. È dunque implicita nella dottrina del rule of law la distinzione tra diritto e Stato; nel mondo moderno i termini “Stato” e “diritto” si sono intrecciati, ma concettualmente devono essere tenuti distinti, perché non è detto che le norme giuridiche devono essere necessariamente emanate da autorità politiche; nella storia esse si sono spesso sviluppate autonomamente. La tradizione di common law è forse il miglior esempio di ciò, in contrasto con la teoria del comando che fa dipendere la validità dal volere del sovrano. Il common law è nato e si è sviluppato per risolvere dispute fra individui, dunque è strutturalmente incompatibile con la produzione legislativa collettiva (sanità pubblica, istruzione ecc.).

Critiche – E’ difficile formulare un insieme di criteri del rule of law tale da eliminare completamente la legislazione arbitraria. È possibile formulare norme assolutamente generali che nonostante ciò favoriscono alcuni gruppi; es.: in un paese prevalentemente protestante, una legge che proibisce lo svolgimento di incontri sportivi di domenica può essere perfettamente generale, tuttavia discrimina i cattolici romani, che generalmente giocano di domenica.

Il common law ha un inevitabile elemento di retroattività, il che comporta che non tutte le norme possono essere conosciute in anticipo.

Per giudicare della “legalità” di una norma non è sufficiente guardare alla sua forma, bisogna esaminare anche il suo contenuto (Fuller, Rothbard).

Bruno Leoni

La differenza tra diritto e legislazione è al centro della riflessione dell’italiano Bruno Leoni. Individualismo e apriorismo di marca austriaca rappresentano il contesto metodologico dell’analisi giuridica di Leoni.

Ne La libertà e la legge [7]Leoni parte dalla constatazione dell’inflazione legislativa che affligge le società contemporanee. Fino all’Ottocento gli ordinamenti giuridici erano basati su un diritto indipendente dalla legislazione, in cui gli esperti, prescindendo dalla volontà dei governanti, avevano il compito di “scoprire” le leggi, e non di decretare. Si applicavano cioè spontaneamente regole non legislative. La legislazione invece è l’espressione della volontà contingente di chi la promulga. Ha la forma di un comando, che tende a prescrivere tipi di condotta, anziché limitarsi a proibire le condotte ingiuste. I sostenitori della legislazione giustificano questo stato di cose con l’argomento della rincorsa ai mutamenti della tecnologia. Ma, obietta Leoni, le procedure della legislazione sono in contrasto con quelle dell’evoluzione tecnologica, basata proprio sull’iniziativa individuale.

Dopo aver ribadito il contenuto ex negativo del concetto di libertà, Leoni passa in rassegna il significato dell’espressione rule of law. Per Dicey il significato di supremazia della legge è: assenza di potere arbitrario, soggezione di tutti alla legge, i diritti come risultato di decisioni giudiziarie. Per Hayek è: generalità, astrattezza, certezza del diritto, controllo da parte delle corti della discrezionalità amministrativa. La distorsione attuale, osserva Leoni, è la creazione di norme speciali, che creano ordinamenti giuridici paralleli in uno stesso paese, violando l’uguaglianza giuridica di fatto, anche se non “davanti alla legge”. La certezza del diritto, condizione necessaria per l’elaborazione dei piani di vita individuali, è stata identificata con le norme scritte. Ma il positivismo giuridico ha svuotato il concetto stesso di certezza del diritto. Non è detto che le leggi scritte garantiscano la libertà e la certezza: quando vi sono troppe leggi che confliggono, o quando queste vengono mutate spesso, non vi è quella certezza che garantisce la libertà. Non basta che le norme siano note in anticipo ai cittadini, condizione che, a parere di Hayek, preverrebbe decisioni arbitrarie ad hoc. La certezza del diritto garantita da norme scritte che mutano è la certezza del diritto “a breve termine”; perché il legislatore da un momento all’altro può cambiare le norme. Ma la vera certezza del diritto è quella “a lungo termine”, l’uniformità delle norme attraverso le epoche, garantita dal diritto evolutivo, che muta con il costume, con i precedenti, dunque in maniera molto lenta, garantendo così stabilità.

Nel common law invece i giudici “scoprono” la soluzione di una vertenza. Il common law è più obiettivo, meno arbitrario dell’attività del legislatore. Non è corretto dire che il giudice svolge nei sistemi di common law il ruolo che il legislatore svolge nei sistemi di civil law. Il legislatore interviene quando vuole e con provvedimenti di portata generale, il giudice solo su richiesta e su casi concreti. I cittadini sono gli attori, i giudici gli spettatori. L’attività dei giudici è preferibile alla legislazione, soprattutto perché essi intervengono solo quando ne sono richiesti dagli interessati (dunque non è possibile la ristrutturazione di interi settori sociali operata in maniera dirigistica dal legislatore), e secondariamente perché la loro decisione non incide su terzi. Il diritto, come il linguaggio e la moneta, nasce dalle relazioni fra gli individui. La tradizione austriaca ha dimostrato che un’autorità centrale non può conoscere l’infinità di bisogni e desideri dei soggetti che compongono il sistema economico. Come un’economia centralizzata non funziona, così un legislatore non può stabilire le regole per tutti, in quanto la sua conoscenza è limitata. La legislazione centralizzata dunque non è compatibile con il libero mercato, mentre il common law lo è. L’articolazione di questa corrispondenza, già individuata dalla Scuola austriaca, è uno dei contributi più originali di Leoni.

La legislazione “negativa”, volta a proteggere le persone contro ciò che esse non vogliono sia fatto loro da altri, è più facilmente formulabile di quella “positiva”. Inoltre, non è detto che esista una “opinione comune”.

All’interno di una concezione evoluzionistica (a cui l’Hayek di Legge, legislazione e libertà deve molto), Leoni evidenzia come il diritto giurisprudenziale consenta alle norme giuridiche di evolversi con la realtà. Le norme migliori sono quelle che, attraverso una selezione positiva, si mostrano più adeguate a garantire il benessere (in senso lato) degli individui.

La ragione principale del prevalere della legislazione sul diritto viene individuata da Leoni nelle forme istituzionali delle società contemporanee. I parlamenti, nati con lo scopo di limitare il potere sovrano, sono diventati essi stessi sovrani, senza altri limiti che il principio di maggioranza. Analizzando le tecniche dei sistemi rappresentativi, Leoni indica la differenza fondamentale fra le decisioni prese dalla collettività attraverso la politica e le decisioni degli individui sul mercato: le prime sono coercitive per il perdente, mentre nelle seconde non vi è perdente. Il sistema rappresentativo è incompatibile con la libertà individuale in quanto coercisce la parte perdente. La sostituzione delle decisioni collettive (attraverso procedure rigide e coercitive come la regola di maggioranza) alle scelte individuali elimina gli aggiustamenti spontanei, non solo fra domanda e offerta, ma anche fra ogni tipo di comportamento. È necessario dunque ridurre l’area delle decisioni collettive, del tipo “tutto-o-niente”, cioè gli ambiti di intervento dei “rappresentanti” (legislatori).

La volontà comune, basata sul principio di maggioranza, è una limitazione della libertà per la minoranza. «La libertà individuale non può essere compatibile con la “volontà comune” ove quest’ultima sia solo un’impostura per celare l’esercizio di coazione sulle minoranze del tipo di Lowell [minoranze che subiscono un’aggressione, n.d.a.] che, a loro volta, non accetterebbero mai la situazione se fossero libere di rifiutarla» [8]. La libertà individuale è compatibile con la volontà comune ogni volta che il suo oggetto è compatibile con il principio “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. «In questo caso le decisioni collettive sono compatibili con la libertà individuale nella misura in cui puniscono e spesso pongono rimedio a tipi di comportamento che tutti i membri del gruppo, compresi quelli che esibiscono tale comportamento, disapproverebbero se ne fossero vittime» [9]. Inoltre, la libertà individuale può essere coerente con i gruppi di decisione e le decisioni di gruppo nel caso in cui rispecchino l’esito di una partecipazione spontanea di tutti i membri alla formazione di una volontà comune, per esempio in un processo di formazione del diritto indipendente dalla legislazione. Tuttavia libertà individuale e legislazione sono scarsamente compatibili a causa della contraddizione fra l’ideale di una formazione spontanea di una volontà comune e la statuizione di essa per mezzo di una procedura coercitiva, come di solito accade nella legislazione. Infine, la libertà individuale è perfettamente compatibile con tutti quei processi il cui esito è la formazione di una volontà comune senza ricorrere a gruppi di decisione e decisioni di gruppo. «Il linguaggio ordinario, le transazioni economiche quotidiane, i costumi, le mode, i processi spontanei di formazione del diritto e, soprattutto, la ricerca scientifica sono gli esempi più comuni e più convincenti di questa compatibilità – anzi, di questa intima connessione – fra la libertà individuale e la formazione spontanea di una volontà comune» [10].

In conclusione, bisognerebbe rifiutare la legislazione, e lasciare operare il common law, ogni volta che 1) la legislazione è usata semplicemente come un mezzo per sottomettere le minoranze, allo scopo di trattarle come perdenti sul campo; e 2) è possibile per gli individui conseguire i propri obiettivi senza dipendere dalla decisione di un gruppo e senza costringere nessun altro a fare cose che non avrebbe mai fatto senza esservi costretto.

Nelle Lezioni di filosofia del diritto[11] Leoni propone la sua interpretazione del diritto come pretesa.

Il diritto è basato sulle pretese (individuali). Pretesa di non essere aggredito o derubato, pretesa all’esecuzione di un contratto da parte dei sottoscrittori, pretesa al risarcimento da colui che ha ricevuto un danno, pretesa di un giudice che emana la sentenza, pretesa di un’autorità che emette un ordine ecc. La pretesa comporta una volizione (l’imposizione di un comportamento ad un soggetto, es. colui che deve risarcire il danno), non è un’analisi dal valore puramente teoretico.

Effetto della pretesa è il positum, cioè la regola di condotta imposta.

La pretesa implica determinate previsioni. Es. il creditore prevede che il debitore paghi; se non paga, prevede che altri soggetti (es. apparato giudiziario) intervengano per costringerlo a pagare; e così via. Si pretende il comportamento più probabile, cioè quello più diffuso in un certo ambito storico; poiché la maggior parte delle persone osserva i doveri (es. saldare un debito), il creditore si aspetta l’osservanza del dovere da parte del debitore.

La pretesa comporta il potere (di esercitarla).

Le pretese in un contesto sociale

Le norme emergono dall’incontro di pretese differenti. Nella società la maggior parte delle pretese sono compatibili (la pretesa di A non impedisce il realizzarsi della pretesa di B) e complementari (il rapporto fra A e B consente a entrambi di realizzare pretese che consentono il raggiungimento dei loro scopi).

I comportamenti semplicemente compatibili, da un punto di vista giuridico consistono normalmente di omissioni. È il campo del codice penale, che stabilisce norme su cose che non si devono fare.

I comportamenti complementari invece consistono in un fare qualche cosa. Un campo è il diritto contrattuale (ma anche l’imposizione fiscale rientra in questo campo).

Le norme sono il frutto dell’incontro di pretese compatibili.

Un ordine giuridico di carattere evolutivo si adatta meglio all’interpretazione del diritto descritta.[12]

Influssi del libertarismo razionalista sulla concezione del diritto

Murray N. Rothbard, Diritto, diritti di proprietà e inquinamento

Il diritto è l’attuazione della forza a livello sociale (“law is the social embodiment of violence”).

Il diritto è un insieme di comandi; i principi del diritto (relativi all’illecito civile o al diritto penale) sono comandi negativi o proibizioni, del tipo “è vietato” compiere le azioni X, Y o Z.[13] In breve, alcune azioni sono considerate sbagliate a un livello tale da considerare appropriato usare la sanzione della violenza per contrastare i trasgressori, difendersi da essi e punirli.

Vi sono molte azioni contro le quali non è ritenuto giusto usare la violenza, individuale o organizzata. La semplice menzogna (purché non siano violati i contratti che trasferiscono titoli di proprietà), il tradimento, l’ingratitudine, la maleducazione ecc. sono atteggiamenti in genere considerati sbagliati, ma poche persone ritengono opportuno usare la violenza per proibirli o combatterli. Gli individui o gruppi di individui possono utilizzare comportamenti simili alle sanzioni, come il rifiuto di vedere una persona o frequentarla, escluderla e così via, ma usare la violenza del diritto per proibire tali azioni è considerato eccessivo e inappropriato.

Se l’etica è una disciplina normativa che identifica e classifica certi tipi di azione come buone o cattive, giuste o sbagliate, allora il diritto civile o penale è il sottoinsieme dell’etica che identifica le azioni contro le quali è corretto usare la violenza. Il diritto dice che l’azione X dovrebbe essere illegale e quindi dovrebbe essere combattuta dalla violenza del diritto. Il diritto è un insieme di proposizioni del tipo “si deve”, o normative.

Molti studiosi e giuristi hanno sostenuto che il diritto è una disciplina avalutativa, “positiva”. Naturalmente è possibile esclusivamente elencare, classificare ed esaminare il diritto vigente senza ulteriori valutazioni su ciò che il diritto dovrebbe o non dovrebbe essere. Ma quel tipo di giurista non sta assolvendo il suo compito fondamentale. Dal momento che il diritto è in ultima istanza un insieme di comandi normativi, il vero giurista o filosofo del diritto non ha assolto il suo compito finché non ha stabilito che cosa il diritto debba essere, per quanto difficile tale compito possa risultare. Se non lo fa, vuol dire che abdica al suo ruolo a vantaggio degli individui o dei gruppi ignari dei principi giuridici, che possono stabilire i propri comandi in base ad un semplice ordine e ad un capriccio arbitrario.

Pertanto, i giuristi seguaci di Austin proclamano che spetta al re, o al sovrano, stabilire il diritto, e il diritto è semplicemente un insieme di comandi che promanano dalla sua volontà. Ma allora sorge la domanda: in base a quali principi il re opera o dovrebbe operare? [14] Si può dire che il re sta emanando un decreto “cattivo” o “erroneo”? Appena il giurista ammette ciò, è oltre il volere arbitrario, e inizia a elaborare un insieme di principi normativi che dovrebbero guidare il sovrano. E allora si trova di nuovo davanti al diritto normativo.

Varianti moderne della teoria giuridica positivistica affermano che il diritto dovrebbe essere ciò che i legislatori proclamano tale. Ma quali principi devono guidare i legislatori? E se diciamo che i legislatori dovrebbero essere i portavoce dei loro elettori, allora spostiamo semplicemente il problema all’indietro, e la domanda diventa: quali principi devono guidare i votanti?

O il diritto, e quindi la libertà d’azione di ciascuno, dev’essere governato dal capriccio arbitrario di milioni di persone anziché di una sola o di poche? [15]

Anche il più antico concetto per cui il diritto dovrebbe essere determinato dai giudici della tribù o da quelli di common law, che si limitano ad applicare le consuetudini della tribù o della società, non può eludere i giudizi normativi essenziali per la teoria. Perché bisogna obbedire alle norme consuetudinarie? Se la consuetudine di una tribù impone l’omicidio di tutte le persone più alte di un metro e ottanta, bisogna comunque obbedire ad essa? Perché la ragione non può fissare un insieme di principi che sfidano e rovesciano le mere consuetudini e tradizioni? Allo stesso modo, perché la ragione non può essere usata per sconfiggere il mero capriccio arbitrario del sovrano o dell’opinione pubblica?

Il diritto che disciplina l’illecito civile e il diritto penale è costituito da un insieme di proibizioni all’invasione – aggressione – dei diritti di proprietà privata; cioè, le sfere di libertà di azione di ogni individuo. Se è così, allora il comando “è vietato interferire con il diritto di proprietà di A” implica che il diritto di proprietà di A è giusto e quindi non dovrebbe essere invaso. Le proibizioni giuridiche, quindi, lungi dall’essere in qualche senso avalutative, in realtà implicano un insieme di teorie sulla giustizia, in particolare sulla giusta assegnazione dei diritti di proprietà e dei titoli di proprietà. “Giustizia” non è altro che un concetto normativo.

Stephan Kinsella, Legislation and Law in a Free Society

Il positivismo giuridico riduce il diritto a semplice voce del potere: esso è un insieme di norme o di comandi emanati dagli organi competenti, con la previsione di una sanzione per i trasgressori; il diritto è legato inscindibilmente allo Stato. Invece il diritto è fondamentalmente ordinamento, cioè ordine che nasce dal basso, dalla società civile che si autorganizza. Il diritto nasce dalla vita e dall’esperienza concreta degli individui, e si manifesta sotto forma di istituti privatistici, contratti, usi, consuetudini, pronunce arbitrali, precedenti giudiziari [Paolo Grossi]. Ordini giuridici del passato, come il diritto pretorio romano, il diritto medievale e la common law, hanno avuto in comune l’idea che il diritto sia una questione che competa alla società civile (e ai suoi esperti: avvocati, giudici, arbitri, giuristi, notai) e non allo Stato. La superiorità di tale criterio è dimostrata dalla longevità e dalla fecondità degli istituti giuridici romani e medievali sorti attraverso un processo di scoperta dal basso (dottrinale, giurisprudenziale, consuetudinario), confrontata con l’incertezza del diritto provocata dall’ipertrofia legislativa contemporanea. Il diritto è una realtà vivente: ad es. quando un assembramento disordinato di persone decide di organizzare una fila secondo determinate regole, è nato spontaneamente dal basso un ordine giuridico, caratterizzato dalla comune osservanza volontaria.

Il diritto è uno strumento di ordinamento sociale: esso permette la convivenza pacifica fra gli individui. Dunque possiede il carattere dell’intersoggettività: esiste solo dove vi sono relazioni sociali; un uomo isolato non ha bisogno del diritto (come non ha bisogno del linguaggio).

Il diritto si basa sull’osservanza volontaria; gli individui nel corso della storia si sono sempre convinti del valore insito delle norme che proteggono la persona e la proprietà.

Anche nell’epoca contemporanea dominata dal monopolio statale della legislazione, tutti i nuovi istituti e contratti commerciali apparsi negli ultimi decenni (leasing, factoring, franchising, joint-venture, brokeraggio, bartering, swap ecc.) sono nati dal seno della società civile, non dal legislatore statale.
La certezza del diritto è data dalla chiarezza e dalla stabilità; dunque la vaghezza/oscurità/contraddittorietà e la proliferazione delle norme sono le nemiche della certezza. La certezza è una caratteristica fondamentale per una società libera. Essa può essere conseguita meglio da un sistema giuridico decentralizzato basato sulle decisioni giudiziarie (common law, diritto romano, diritto consuetudinario) che non in un sistema giuridico basato sulla legislazione centralizzata. Ciò, come ha spiegato Leoni, per tre motivi: 1) i giudici possono intervenire solo quando sorge una controversia e le parti richiedono il loro intervento, mentre il legislatore può intervenire quando vuole in ogni materia; 2) la decisione del giudice condiziona soprattutto le parti coinvolte e solo occasionalmente influenza soggetti terzi o non coinvolti nella causa; 3) la discrezionalità del giudice è limitata dalla necessità di rifarsi ai precedenti.

I pianificatori centralizzati non possono raccogliere le informazioni diffuse fra gli individui, dunque i legislatori centralizzati non possono legiferare razionalmente perché non possono conoscere le esigenze degli individui; dunque vengono influenzati dai gruppi di interesse. I sistemi decentralizzati come il common law invece sono analoghi al libero mercato, in cui si determina un ordine naturale; i lobbisti dovrebbero investire una quantità smisurata di risorse (non solo economiche, anche come costi di transazione) per convincere tutti i giudici e cambiare le norme.

I danni derivanti dall’incertezza del diritto: 1) rende i cittadini involontariamente e inconsapevolmente trasgressori delle norme, specialmente in presenza della perversa regola “l’ignoranza della legge non scusa”; 2) aumenta la preferenza temporale degli individui, cioè aumenta il consumo presente a scapito degli investimenti, perché se il futuro è meno certo, viene valutato meno rispetto al presente.

Non è detto che i codici (civile, penale), molto utili nella sistematizzazione del diritto, debbano essere statalizzati e prodotti con il meccanismo legislativo: essi possono essere anche redatti privatamente, come i Commentaries on the Law of England di Blackstone o i contemporanei Restatements of the law americani. I codici sarebbero di gran lunga più razionali e sistematici se dovessero racchiudere soprattutto gli sviluppi della common law, anziché l’enorme legislazione.

Realismo giuridico

Analisi economica del diritto

Coase, Posner (1973), Calabresi, D. Friedman

Metodo di indagine (micro)economico, si esaminano gli effetti economici delle regole giuridiche (comprese le decisioni giurisprudenziali). Le regole sono in grado di modificare i comportamenti individuali perché i soggetti sono “massimizzatori razionali”, cioè scelgono le soluzioni legali per loro più vantaggiose, e rispondono razionalmente agli incentivi e ai disincentivi creati dai vincoli esterni. Le norme giuridiche devono massimizzare il benessere (efficienza, ricchezza), sulla base di indagini empiriche sui costi/benefici.

Due correnti all’interno della scuola: quella “positiva” (viva a Chicago con Posner) e quella “normativa” (a Yale con Calabresi). La prima ritiene che l’unico criterio dev’essere la massimizzazione della ricchezza, e che esso è parametro di giudizio non solo dell’efficienza, ma anche della giustizia di un sistema giuridico. Il parametro deve essere la ricchezza e non l’utilità perché questa è impossibile da misurare e da comparare in forma interpersonale.

La seconda corrente sostiene che, in termini di giustizia, il solo incremento di ricchezza non basta, e deve essere coniugato con altri scopi, come l’eguaglianza e l’utilità, dunque le norme devono indurre redistribuzioni della ricchezza.

Appendice

TEORIA DEL DIRITTO

“Umanità” e “socialità” del diritto: il d. esiste in quanto esistono gli uomini e esistono relazioni fra di essi. Se gli uomini non esistessero o ciascuno vivesse completamente isolato dagli altri non vi sarebbe spazio per il diritto.

Funzioni del diritto

La funzione minimale del d., cioè la ragione minima per la quale gli uomini si servono del diritto, è la convivenza pacifica, cioè non violenta; cosicché il d. tende alla funzione minimale dell’ordine, della pace sociale, della sopravvivenza del gruppo sociale, del disciplinamento della dinamica sociale, inteso come semplice assenza di conflitti, non nel senso forte di armonia positiva. Il diritto è il sottoinsieme dell’etica che identifica le azioni contro le quali si può fare ricorso alla forza. Il mentire appartiene all’etica ma non al diritto, e infatti non si usa la forza contro una persona che ha detto una bugia; uccidere appartiene sia all’etica sia al diritto.

Il d. sarebbe necessario anche se gli individui fossero “angeli”, cioè moralmente perfetti, perché ai fini del coordinamento sociale sono necessarie delle regole; es.: se nella circolazione stradale si deve tenere la destra o la sinistra.

Tuttavia, esaminando il d. delle società contemporanee, si deve prendere in considerazione anche la redistribuzione dei beni (funzione promozionale), strettamente associata alla realizzazione dello Stato sociale. È proprio nel settore economico il luogo dove la promozionalità assurge a vera e propria caratterizzazione di un ampio settore del d. moderno.

Definizioni

Il diritto è un insieme coordinato di norme che regola il comportamento umano al fine di garantire la convivenza pacifica fra gli individui. [al fine di organizzare – nel senso di ‘dare ordine’ a – la vita sociale.]

Insieme coordinato di norme per la distribuzione imperativa dei valori (vita, integrità fisica, libertà, sicurezza) e dei beni nella società.

Tecnica per il controllo del comportamento umano.

Il diritto è un insieme coordinato di norme, di regole di condotta, è un ordinamento; una norma giuridica non si trova mai sola, è legata ad altre norme con le quali forma un sistema.

[v. infra ordinamento giuridico]

D. oggettivo e d. soggettivo –  d. o.: complesso di norme. Law.

d.s.: è il riconoscimento-attribuzione da parte dell’ordinamento giuridico del potere di compiere un’azione, di disporre di una cosa (d. negativi), o di esigere una prestazione da altri (d. contrattuale, d. positivi). Esso comporta una pretesa, e dunque la facoltà di agire per difendere l’interesse riconosciuto ed eventualmente minacciato. Right.[16]

Soggetto: centro di imputazioni giuridiche (diritti, interessi, aspettative, obblighi)

Legge: nel significato di oggi, è un atto del legislatore che forma o modifica il diritto.

Giurisprudenza: insieme delle decisioni giudiziarie delle corti. In passato indicava la scienza che studia e spiega il diritto positivo, cioè ciò che oggi chiamiamo dottrina.

Certezza del diritto: esistenza di norme chiare (non vaghe e interpretabili arbitrariamente), stabili (non modificabili con frequenza da un soggetto, collettivo o monocratico) e fatte rispettare.

Storia del d.

Per gran parte della storia umana il diritto è stato consuetudinario; esempi di norme scritte: codice di Hammurabi in Babilonia (18° secolo a.C.), costituzioni delle poleis greche nel 5° secolo a. C., legge delle 12 tavole nell’antica Roma (5° secolo a.C.), codificazione di Giustiniano (6° secolo d.C.). L’avvento del diritto scritto si realizza agli inizi dell’Ottocento (codificazioni), e va di pari passo con la statizzazione del diritto. Il d. non è necessariamente collegato allo Stato; esso può derivare anche da una comunità che dal basso si auto-organizza. Tuttavia nell’epoca moderna lo Stato si è riservato il monopolio del diritto, o producendolo direttamente o riconoscendone alcune fonti. Lo Stato, disponendo del monopolio della forza, può conferire alle norme quella qualità (l’imperatività) che le rende giuridiche. Lo Stato esercita questo monopolio del diritto attraverso 1) l’assunzione del dominio sulle sue fonti (funzione legislativa), 2) il dominio sulla sua applicazione (funzione giurisdizionale), 3) la competenza esclusiva sulla materiale costrizione dei comportamenti (funzione di polizia).

Rami del d.

Privato: regola i rapporti fra privati (civile, commerciale, del lavoro, della navigazione, bancario)

Pubblico: regola l’organizzazione dello Stato e i rapporti fra lo Stato e i privati (costituzionale, amministrativo, penale, processuale, tributario, regionale).

Questa distinzione non è appropriata per i sistemi di common law.

NORMA GIURIDICA

La norma è l’unità elementare di quel sistema che è il diritto.

Definizione

La n. g. è una proposizione prescrittiva (normativa), generale e astratta, che impone o vieta determinati comportamenti.

Le n.g. impongono, vietano [o permettono] comportamenti.

Comandi negativi, cioè che vietano o proibiscono, sono in genere quelli del diritto penale, che impongono di “non commettere” le azioni X, Y o Z (non uccidere, non rubare, non percuotere).

Comandi positivi, che obbligano ad effettuare un’azione, sono ad esempio le norme fiscali o le norme che impongono l’esecuzione dei contratti (pagamento di una somma, consegna di un bene, effettuazione di una prestazione).

La norma giuridica esprime il “dover essere”.

Va precisato che la norma non è un’entità in sé chiusa, coincidente, ad esempio, con un articolo di una legge o con la legge stessa. Essa è un enunciato ricavabile, attraverso un’operazione ermeneutica, da più documenti o da più fatti (consuetudini).

I fatti che accadono nella realtà, individuali e concreti, sono le fattispecie concrete. Le norme che li regolano sono le fattispecie astratte. Un rapporto fra due soggetti diventa giuridico solo dopo che una norma lo abbia regolato. Un rapporto di fatto si trasforma in un rapporto giuridico quando una norma attribuisce a uno dei due soggetti un diritto e all’altro un dovere o obbligo.

Esaminando la norma da un punto di vista formale, cioè relativamente alla struttura e non al contenuto, una norma è una proposizione prescrittiva. Quando diciamo che una norma è una proposizione vogliamo dire che essa è un insieme di parole aventi un significato. Tale enunciato solitamente è linguistico (scritto o orale), ma talvolta si esprime con segni diversi dalla lingua (es. semaforo) ma comunque dotati di senso compiuto per i destinatari.

Prescrittiva: cioè impone o vieta determinati comportamenti; non descrittiva (tipico delle scienze).

Per le proposizioni prescrittive non vale il criterio di verità o falsità ma solo quello di giustizia o di validità. Non ha senso dire che la norma “è vietato calpestare le aiuole” sia falsa o vera, mentre si può dire che è giusta (o ingiusta) o valida (o invalida).

Carattere di una norma: le norme possono essere imperative, proibitive, [permissive].

Contenuto di una norma: è ciò che una norma dichiara proibito, obbligatorio o permesso (es. uccidere, pagare).

Fra le proposizioni, al giurista interessano i comandi. I comandi delle norme giuridiche sono espressi in forma dichiarativa, non imperativa: non viene scritto “non uccidere”, ma “chiunque…”.

I diversi criteri proposti dalle dottrine per distinguere le norme giuridiche da altri tipi di norme:

1) Le norme giuridiche sono costituite da imperativi negativi (mentre la morale sarebbe costituita da imperativi positivi).

2) Le n. g. sono costituite da norme tecniche, quelle morali da norme etiche.

3) Le n. g. sono norme eteronome, provenienti dall’esterno, le norme morali autonome, provenienti dall’interno del soggetto.

4) Criterio del contenuto: la n. g. regola un rapporto intersoggettivo (ma anche la norma sociale).

5) Criterio del fine: le n. g. servono alla conservazione della società.

6) Criterio del soggetto (positivistico): le n. g. sono quelle poste da chi detiene il potere sovrano.

7) Criterio giusnaturalistico: le n. g. sono quelle che si ispirano a valori, in particolare a quello della giustizia (troppo vago).

8) Nelle n. g. il destinatario è convinto della loro obbligatorietà, per le altre norme l’obbligo non è incondizionato.

9) Le n. g. riguardano il comportamento esteriore del soggetto, tengono conto della manifestazione di un atto, non dell’intenzione (es.: provare odio non è punibile dalle n. g., lo è da alcune n. morali e religiose).

10) La n. g.  è dotata di sanzione istituzionalizzata, le altre norme no. La sanzione è necessaria perché in una società non vi è mai l’adesione spontanea di tutti i membri alle norme stabilite.

La norma giuridica si differenzia dagli altri tipi di regole in quanto è obbligatoria, ed è posta dall’autorità (lo Stato) che dispone del monopolio della forza legittima (coercibilità della n., cioè possibilità di farla rispettare con la forza). Le norme morali (aiutare una persona in difficoltà, la fedeltà coniugale, l’elemosina, il non mentire, pagare i debiti di gioco), sociali (buona educazione: salutare; etichetta: mangiare con le posate) o religiose (la preghiera, assistere alla messa, il divieto del suicidio) possono anche essere violate, ma ciò non comporta una sanzione. O meglio, ciò non comporta una sanzione esterna istituzionalizzata. Infatti le norme morali sono autonome (nel senso di non eteronome, che riguardano il foro interno), e, se comportano una sanzione, essa è interna (il rimorso della persona). Le norme sociali comprendono una sanzione esterna, da parte del gruppo sociale (ad es. la riprovazione) ma questa non è istituzionalizzata, cioè non è guidata da regole precise, può mancare di proporzione fra violazione e risposta, o può essere applicata in maniera incostante.

Dunque, le norme giuridiche, a differenza delle altre, sono norme a efficacia rafforzata.

L’evoluzione storica ha sostituito l’autotutela con l’eterotutela, cioè la sanzione viene inflitta da organi diversi dalle parti in conflitto, in quanto sarebbe garantita una maggiore uguaglianza di trattamento.

La violazione della norma si chiama illecito.

La sanzione

È (la minaccia de) il danno conseguente alla violazione della norma. È la pena, il castigo, la punizione. La sanzione evidenzia il profondo nesso che lega il diritto alla forza.

La s. consiste nella privazione di un bene individuale fra i quattro fondamentali, che sono: vita, integrità fisica, libertà, proprietà. La pena di morte è la sanzione che incide sulla vita; le pene corporali, ad esempio la mutilazione o la fustigazione, colpiscono l’integrità fisica; la detenzione (reclusione, arresto) incide sulla libertà; e le pene pecuniarie (multa, risarcimento, confisca, esecuzione forzata sui beni) sul patrimonio o proprietà.

Vi sono poi alcune sanzioni che provocano l’inabilitazione all’esercizio di alcuni diritti (es.: politici; o di guidare nel caso di ritiro della patente) [nullità, annullabilità]. Può essere punitiva o riparatoria.

Deve essere irrogata ed eseguita da un’autorità competente: è ciò che distingue la pena di morte da un omicidio o la reclusione da un sequestro di persona.

Norme prive di sanzione: i dettati costituzionali.

Sanzioni positive: gli incentivi (es.: in caso di realizzazione di un impianto industriale in una certa zona).

L’imperatività

Le norme giuridiche sono comandi, o imperativi. [Thon (1878) ha formulato la dottrina imperativistica del diritto] I precetti possono essere positivi o negativi, cioè obblighi di fare o di non fare. Ai fini dell’imperatività è essenziale la sanzione.

I destinatari della norma giuridica sono i cittadini (un’altra teoria, Jhering, sostiene che i destinatari sono gli organi giudiziari incaricati di esercitare il potere coattivo, e in genere tutti gli organi dello stato abilitati all’uso della forza).

Per Kelsen una norma è giuridica se ha come contenuto un atto coercitivo. Dunque una norma giuridica è quella che prescrive una sanzione.

Hart (1961) ha criticato la concezione delle norme come comandi sostenuti da minacce, sostenendo che accanto alle norme imperative vi sono le norme permissive, che attribuiscono facoltà. Lo schema imperativo sarebbe vero per le norme penali ed alcune civili, ma non per le norme che hanno la funzione di conferire poteri, sia a soggetti privati sia a soggetti pubblici. Esempi del primo tipo: norme che definiscono il modo in cui si stipulano contratti, testamenti, matrimoni; es.: dopo la sentenza di morte presunta “il coniuge può contrarre nuovo matrimonio” (art. 65 c.c.); in questo caso non verrebbero imposti obblighi (tuttavia vengono imposte condizioni senza le quali non si determinano i diritti e gli obblighi voluti dagli individui: la nullità del contratto per non averne rispettato i requisiti può essere considerata una sanzione, perché l’effetto per il soggetto è l’impedimento a perseguire il risultato voluto). Altro esempio contro la teoria che vede nella sanzione un elemento costitutivo del diritto: l’art. 315 c.c. “il figlio… deve onorare e rispettare i genitori” è una norma senza sanzione.

Esempi del secondo tipo: le norme che disciplinano il modo in cui il legislatore deve dettare le leggi, o il giudice emettere le sentenze. Nel diritto pubblico, in particolare nella parte che riguarda l’organizzazione dei poteri dello stato,  prevalgono le norme non sanzionabili. È vero, ma quando si parla di sanzione come elemento costitutivo del diritto non ci si riferisce alle singole norme, ma all’ordinamento normativo preso nel suo complesso. Non è necessario che tutte le norme del sistema siano sanzionate, ma soltanto che lo siano la maggior parte.

(Per quanto riguarda le norme costituzionali, la loro violazione è giustiziabile da parte degli organi amministrativi). In questi casi la nullità potrebbe essere la sanzione, sebbene la questione sia controversa (v. Nino pag. 78).

Inoltre, sempre per quanto riguarda le norme di diritto pubblico (costituzionale), se coloro che agiscono ai vertici del potere agiscono in modo non conforme ad una norma, questo comportamento non è la violazione della norma, ma la produzione di una norma nuova. Es.: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” (art. 139 Cost.); se un’assemblea costituente violasse questo articolo ciò rappresenterebbe l’instaurazione di una nuova costituzione.

Tuttavia la presenza di norme permissive non è un argomento contro l’imperatività del diritto; infatti le norme permissive presuppongono le norme imperative, cioè la funzione delle norme permissive è di far venir meno un imperativo. Nell’esempio precedente, la norma permissiva dell’art. 65 ha ragion d’essere in quanto la regola normativa presupposta è il divieto di contrarre un secondo matrimonio fino a che uno dei coniugi è vivo. Ciò è confermato dal fatto che il postulato del diritto è “tutto ciò che non è proibito è permesso”; dunque non vi sarebbe bisogno di introdurre una norma permissiva se non vi fosse prima una norma imperativa.

Altra obiezione: esistono interi ordinamenti senza sanzione, ad esempio il diritto internazionale. Ma, o non è un ordinamento; o esiste la sanzione, ed è la guerra come risposta ad una violazione (è autotutela, non eterotutela, ma è sempre organizzazione della sanzione). E se uno stato non ha la forza di ripristinare la legalità violata?

Un’altra teoria antimperativistica è quella, di Kelsen, che attribuisce alla norma giuridica il carattere non del comando ma del giudizio ipotetico, la cui formula è: “se è A, deve essere B”, dove A rappresenta l’illecito e B la sanzione. Ad esempio, se si commette un furto, la sanzione è la reclusione. Ma il giudizio ipotetico è pur sempre un giudizio ipotetico prescrittivo e non descrittivo, cioè è un giudizio che nella seconda parte contiene una prescrizione (“deve essere B”); dunque il carattere imperativo del diritto è confermato.

L’atto antigiuridico (l’illecito)

L’illecito riguarda sia il diritto penale, e in tal caso si ha un reato, sia il diritto civile (es.: l’inadempimento contrattuale, il danno patrimoniale).

L’illecito consiste in un’azione quando la norma violata è un imperativo negativo, in una omissione quando la norma è un imperativo positivo. Altra condizione è la colpevolezza, cioè l’azione deve possedere una componente psicologica, che è o il dolo (intenzione) o la colpa (negligenza o imprudenza).

Caratteristiche  della  n.g.

Imperatività (v. sopra)

Generalità: la norma deve essere rispettata da chiunque si trovi nella situazione descritta dalla norma stessa. Essa non si rivolge a singole persone, ma a una generalità di persone. La generalità garantisce l’eguaglianza giuridica.

L’opposto della generalità è la singolarità. Esempi di norme non generali: differente età pensionistica per uomini e donne, differenti requisiti per l’assunzione (privilegi ad handicappati, minoranze razziali ecc.), rilievo penale solo in Campania per l’azione di deposito in strada dei rifiuti pericolosi o ingombranti.

Le sentenze dei giudici sono norme giuridiche? Per molti giuristi no perché sono applicazione del diritto, non diritto. Per Soler no perché mancano del requisito della generalità. Per altri giuristi si, anche se le definiscono norme giuridiche particolari. Nei sistemi di common law lo sono senz’altro.

Astrattezza: la norma si applica in ogni situazione eguale a quella prevista dalla norma. Riguarda un’azione-tipo; disciplina una classe di fatti. Es.: non viene disciplinato il furto di quel determinato quadro di Picasso, ma il furto in quanto tale; il codice della strada non si riferisce al caso specifico del mio tamponamento, ma ipotizza la situazione tipica del tamponamento, che può avvenire poi in tanti modi diversi (tra cui il mio). L’astrattezza garantisce la certezza del diritto, cioè gli effetti che l’ordinamento giuridico attribuisce a un dato comportamento, in modo che gli individui siano in grado di sapere in anticipo le conseguenze delle proprie azioni.

L’opposto è una norma concreta; es.: un giudice che obbliga le parti a esibire in giudizio un documento; come sopra, è dubbio che sia una n. g.

Le norme speciali rappresentano una deroga ai principi di generalità e astrattezza.

Classificazioni delle n. g.

– originarie e derivate: le prime sono le norme la cui appartenenza all’ordinamento non dipende dalla (previa) esistenza di altre norme; tali sono le norme costituzionali, che sono, per definizione, frutto dell’esercizio di potere costituente, ossia di un potere extra ordinem, non conferito né disciplinato da alcuna norma preesistente (diversamente si tratterebbe di un potere non costituente, ma costituito). Sono derivate tutte le norme rimanenti, tutte quelle cioè la cui esistenza riposa sulla previa esistenza di altre norme; sono norme derivate sia quelle che derivano logicamente da norme preesistenti sia quelle emanate da un soggetto investito di autorità normativa da una norma preesistente;

– primarie e secondarie : le varie scuole hanno usato questi termini per classificare secondo criteri diversi; la classificazione più diffusa è quella rappresentata nelle quattro che seguono: le norme primarie sono le norme di condotta (o che impongono obblighi, o sostanziali, o di comportamento), le secondarie sono le norme sulla produzione e l’applicazione del diritto (di struttura, o che conferiscono poteri, o procedurali, o di organizzazione). Un’altra classificazione è: le prime sono quelle che impongono modelli di condotta e le seconde sono le sanzioni (secondo il destinatario, nel secondo caso gli organi che devono far rispettare);

– n. di condotta e n. di struttura: le prime prescrivono la condotta che si deve tenere o non tenere, le seconde invece (metanorme) descrivono il procedimento che deve essere seguito affinché siano emanate norme di condotta valide. Dunque norme per la produzione di altre norme. Es.: le norme della Costituzione che regolano il procedimento legislativo; le leggi di procedura che regolano il processo penale e civile. Anche queste sono norme imperative: vengono definiti imperativi di seconda istanza;

– n. che impongono obblighi e n. che conferiscono poteri (pubblici o privati: hanno la funzione di accordare ai soggetti facilitazioni per concretizzare i loro desideri; es.: il modo in cui si celebrano contratti, matrimoni, testamenti); ma potrebbero definirsi anche tecniche, perché indicano la via per conseguire qualche fine (come fare testamento, come trasferire la proprietà di un immobile, come ipotecare validamente un bene ecc.);

– sostanziali e procedurali (o processuali);

– di comportamento e di organizzazione;

– formulate e inespresse: le prime trovano un’enunciazione espressa, le seconde sono ricavate dalle norme formulate mediante procedimenti logici (deduzione);

– affermative (il comportamento imposto è un fare) e negative (il comportamento imposto è un non fare);

– imperative e permissive;

– imperative e suppletive (disciplinano una situazione solo se gli interessati non hanno deciso diversamente: es.: l’art. 1574 del c.c. detta alcuni criteri per stabilire la durata del contratto di locazione, se le parti non hanno stabilito diversamente);

– determinative, che servono a definire un istituto (il matrimonio, la proprietà);

– consuetudinarie e legislative;

– categoriche e ipotetiche;

– di diritto statuale, canonico, internazionale ecc.

Ogni norma giuridica può essere esaminata da tre punti di vista: la validità, l’efficacia e la giustizia.

Validità: una norma è valida se formalmente conforme e materialmente non incompatibile con le norme che sono ad essa formalmente e materialmente superiori. È il problema dell’esistenza della regola[17]; se quella tal regola, così e così determinata, sia una regola giuridica. Il problema ha a che fare con l’accertamento dell’autorità che l’ha emanata, se essa aveva il potere legittimo; e con la compatibilità con altre norme (ad es. gerarchicamente superiori). Si occupa non dei fini, ma dei mezzi per attuare quei fini, cioè esamina quali sono i caratteri peculiari di un ordinamento giuridico distinto da altri ordinamenti normativi (ad es. quello morale) (problema ontologico del diritto, che dà luogo alla filosofia del diritto come teoria generale del diritto).

Efficacia: è il problema se la norma è seguita o no dalle persone a cui è diretta (e/o non è applicata dagli organi che detengono il monopolio della forza). La ricerca per accertare l’efficacia o l’inefficacia di una norma è una ricerca storico-sociologica (problema fenomenologico del diritto, che dà luogo alla sociologia giuridica). Ad esempio, l’articolo 624 del codice penale italiano, che punisce tutti i furti con la reclusione fino a tre anni, sul piano formale della dogmatica è valido; ma nella realtà non tutti i furti sono puniti; il piano sociologico è diverso da quello formale (e non significa che i due siano contraddittori, parlano solo di cose diverse). Una norma valida che non viene rispettata o è poco rispettata o non è fatta rispettare si definisce ineffettiva.

Giustizia: è il problema della corrispondenza della norma ai valori ultimi o finali che ispirano un determinato ordinamento giuridico (problema deontologico del diritto, che dà luogo alla filosofia del diritto in quanto teoria della giustizia) [18].

I tre criteri sono indipendenti: una norma può essere valida senza essere giusta (contrariamente a ciò che asseriscono i giusnaturalisti e, per altro verso, i positivisti); può essere valida senza essere efficace (contrariamente al pensiero del realismo giuridico); può essere giusta senza essere efficace; e così via.

In un diritto consuetudinario vigore (validità) ed effettività (efficacia) coincidono sempre.

Efficacia delle norme nel tempo

Esempio di retroattività nelle leggi penali: alcune guardie di frontiera della DDR che avevano sparato e ucciso cittadini che cercavano di scappare ad Ovest, dopo la riunificazione sono state condannate (quelle che avevano agito con maggiore crudeltà); l’atto non era reato quando esisteva la DDR.

Efficacia delle norme nello spazio

Principio di territorialità: il diritto interno si applica solo ai fatti accaduti nel territorio dello Stato. Chiunque commette reato nel territorio dello Stato è soggetto al diritto di quello Stato. Proiezione verso l’alto, fino all’atmosfera; e verso il basso, nel sottosuolo.

Acque territoriali: 20 miglia (12 km.) dalla costa.

Gli oceani: in base al diritto dei mari, ratificato dalla convenzione delle N. U. nel 1982 e aggiornato nel 2005, vengono assegnati agli stati parti degli oceani (con sovranità per la pesca, la navigazione, le risorse naturali); lo stesso vale per l’Antartide in seguito a un trattato del 1959.

L’applicazione della norma

L’applicazione della norma, cioè l’operatività nel caso concreto, si presenta come un ragionamento deduttivo, cioè si imposta come un sillogismo: fattispecie astratta (la norma dedotta dal diritto), fattispecie concreta (il fatto qualificato giuridicamente) e conclusione (decisione).

Interpretazione delle norme giuridiche

L’i. è l’attribuzione di un significato ad un enunciato normativo in vista dell’applicazione a un caso concreto.

In teoria questa definizione è composta di due parti che rappresentano due attività concettualmente distinte: la prima consiste nel ricavare il significato di una disposizione; la seconda consiste nell’applicazione di una norma previamente identificata alla fattispecie concreta. Ma nella pratica giuridica le due cose sono strettamente intrecciate.

La necessità di interpretare nasce dal fatto che la realtà sociale è inevitabilmente più varia e mobile della necessaria generalità del testo scritto che è la norma. Di regola l’autore di un enunciato vuole comunicare un solo e specifico significato, ma può capitare che i destinatari intendano significati diversi. Ciò avviene (ed è il motivo per cui vi è necessità di interpretare le n. g.) per:

1) indeterminatezza del significato, determinata dall’imprecisione delle parole, che possono essere vaghe o generiche: esempi: “danno ingiusto”, “grave pregiudizio”, “diligenza del buon padre di famiglia”; altri esempi pag. 236).

2) ambiguità semantica delle parole (più di un significato) o della struttura sintattica dell’enunciato. Esempi: (in Nino pag. 231. Art. 59 Cost.: “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini…”; ogni presidente cinque o la presidenza come organo cinque? Nel secondo caso non più di cinque in parlamento.  Art. 94, commi 2 e 5, che prevede che una delle camere possa votare la sfiducia al governo; significa che può essere oggetto di una mozione di sfiducia solo il governo nella sua interezza o anche un singolo ministro?[19]).

Interpretazione letterale: problemi: il linguaggio tecnico-giuridico; il collegamento con le altre norme.

Interpretazione teleologica: lo scopo del legislatore, cioè le finalità economiche, sociali e politiche; strumenti: i lavori preparatori, il profilo storico (si confronta la norma con quelle che l’hanno preceduta), la realtà economica e sociale che la norma si propone di regolare.

L’interpretazione è un passaggio necessario per l’applicazione. L’interpretazione/applicazione toglie generalità e astrattezza alla disposizione e la immerge nel concreto della realtà.

Esempi di principi generali del diritto a cui si fa riferimento in caso di difficoltà nell’i.: obbligo di rispettare i patti (lealtà), divieto di un comportamento contraddittorio, buona fede.

V. infra per le lacune del diritto.

TEORIA DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO

L’ordinamento giuridico è l’insieme di norme. A volte l’espressione è usata come sinonimo di diritto (oggettivo), v. supra.

Secondo una definizione più elaborata, l’ordinamento giuridico è l’insieme di documenti e fatti da cui si ricavano, attraverso un processo interpretativo, le norme giuridiche. Infatti, non tutti gli enunciati sono norme giuridiche: ad esempio l’art. 74 del codice civile che definisce il termine “parentela” non è una norma giuridica, tuttavia insieme ad altri enunciati contribuisce a produrre norme giuridiche.

Le due caratteristiche necessarie di un sistema giuridico (e del diritto) sono la coattività e l’istituzionalizzazione (le norme stabiliscono delle autorità o degli organi centralizzati autorizzati ad usare la forza).

Fonti del diritto

classificazione delle n. g. in base all’origine

Sono gli atti e i fatti da cui dipende la produzione delle norme giuridiche.

In Italia: 1) Costituzione e leggi costituzionali, 2) leggi ordinarie, atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), leggi regionali, Regolamenti UE, 3) regolamenti pubblica amministrazione, 4) usi e consuetudini.

Consuetudine –  È un fatto umano che viene ripetuto durevolmente, perché in esso la coscienza collettiva rinviene un valore da serbare e osservare. A differenza della Costituzione o della legge, la c. non è un principio o una previsione, cioè una manifestazione che attende l’applicazione per incarnarsi, bensì è un fatto: manifestazione e incarnazione sono un tutt’uno. È così che nasce il diritto nei primordi della storia umana: non da un testo scritto, frutto di rivelazioni divine o di sapienza di dotti, bensì da un fatto che si ripete, da una durata che si distende nel tempo, da un’osservanza collettiva che è adesione, persuasione, non obbedienza passiva. Nessuna forma di manifestazione più della consuetudine rivela la natura del diritto per chi non lo intende come puro comando. Nella sua elementarità la consuetudine è la fonte che più rispecchia il diritto allo stato di purezza originaria.

Tuttavia ciò che è la sua forza in una società statica di tipo agrario, diventa la sua debolezza in società che diventano complesse e dinamiche: il particolarismo. La c. nasce dal particolare, perché il fatto si colloca sempre nel particolare. Una società complessa si perderebbe in un reticolato di usi, e dunque c’è bisogno di schemi generali ordinanti, che vengono forniti dalla legge ma anche dalla scienza giuridica, dai giuristi (es. si disegna l’istituto del contratto). (Paolo Grossi).

Norme UE: le sole due materie in cui l’Unione ha competenza esclusiva sono la politica per la concorrenza all’interno del mercato unico e la politica monetaria. Altre materie sono oggetto di competenza concorrente, cioè coesiste ed è complementare con quella degli Stati: es. reti transeuropee, ricerca, industria, protezione dei consumatori, agricoltura.

È controverso se le sentenze con cui la Corte costituzionale italiana dichiara l’illegittimità costituzionale delle leggi siano una fonte del diritto (a favore Pizzorusso 1977).

Gli ordinamenti giuridici sono complessi, cioè le norme che li compongono derivano da più fonti. Si dicono semplici quelli costituiti da una sola fonte (praticamente inesistenti).

Due persone che stipulano un contratto creano diritto? Esse istituiscono diritti, obblighi, poteri e sanzioni; producono norme autonome, che regolano soltanto le condotte di quanti sono parti del contratto.

Gerarchia

Riguarda la diversa “forza” delle fonti. È la relazione che intercorre tra due norme allorché una di esse non può essere contraddetta dall’altra. Dunque la norma A è sovraordinata alla norma B se una terza norma C stabilisce che B non può contraddire A. Questa si chiama gerarchia materiale o sostanziale. Es., negli ordinamenti a costituzione rigida, ogni legge che sia in contrasto con la costituzione, è invalida (viene cancellata da un organo apposito).

Poi esiste la gerarchia formale (Kelsen), che intercorre fra le norme sulla produzione giuridica e le norme prodotte in accordo con esse; es. le norme costituzionali sulla formazione delle leggi sono sovraordinate alla legislazione stessa.

Le norme inferiori derivano dalle superiori. Quando un organo superiore attribuisce a un organo inferiore un potere normativo, glielo attribuisce con due tipi di limiti: di contenuto (materiali) e di forma (formali). Il primo tipo di limiti riguarda il contenuto della norma che l’inferiore è autorizzato a emanare (es.: il legislatore ordinario non può restringere la libertà religiosa); il secondo la procedura con cui la norma deve essere emanata (il parlamento deve seguire una determinata procedura per l’approvazione delle leggi).

La norma fondamentale di Kelsen – Risalendo dalle norme inferiori a quelle superiori, quali sono le norme ultime? Per chiudere il sistema bisogna andare oltre le norme costituzionali. Infatti il potere costituente è il potere ultimo, ma ogni potere normativo presuppone una norma che lo autorizzi a produrre norme giuridiche. In sostanza, è necessaria una norma che dia validità alle prime norme positive del sistema. Tale norma è la norma fondamentale. Essa può essere formulata così: “Il potere costituente è autorizzato ad emanare norme obbligatorie per tutta la collettività ”. Naturalmente la norma fondamentale non è espressa, non è una norma positiva; la si presuppone in maniera sottintesa.

Ad esempio, per l’ordinamento giuridico italiano la norma fondamentale presupposta dai giuristi sarebbe: “L’Assemblea Costituente, riunita il 22 dicembre 1947, è autorizzata ad approvare la Costituzione”.

La norma fondamentale dà unità all’ordinamento giuridico, in quanto ad essa si possono far risalire, direttamente o indirettamente, tutte le norme dell’ordinamento. Inoltre dovrebbe costituire un criterio di appartenenza di una norma ad un sistema giuridico.

Se poi ci si domanda su che cosa si fonda la norma fondamentale, cioè cosa dà validità alla norma fondamentale, non vi è una risposta soddisfacente. Per alcuni il problema esce dal sistema giuridico ed entra nella tradizionale discussione sul fondamento e sulla giustificazione del potere, le cui risposte sono state: Dio, la legge naturale, il contratto originario ecc.

La norma fondamentale stabilisce che bisogna ubbidire al potere originario. Ma che cos’è il potere originario? È l’insieme delle forze politiche che in un determinato momento storico hanno preso il sopravvento e hanno instaurato un determinato ordinamento giuridico. Si potrebbe obiettare che far dipendere il sistema normativo dal potere originario significa ridurre il diritto alla forza. Ma non bisogna confondere il potere con la forza. Il potere originario può anche riposare sul consenso. La forza è uno strumento necessario del potere, ma non è detto che ne sia anche il fondamento.

Un criterio alternativo è la regola di riconoscimento di Hart. Essa può essere formulata così: “Sono diritto in questo paese tutte le norme dettate dal legislatore A o da chi è autorizzato da lui”.

Altro criterio: una norma appartiene ad un sistema giuridico quando è riconosciuta dagli organi che dispongono misure coattive (i giudici) ricorrendo alla stessa organizzazione che detiene il monopolio della forza.

Coerenza dell’o. g.

Un ordinamento giuridico costituisce un sistema, cioè un insieme di enti tra cui esiste un certo ordine? Vi sono diversi significati del termine sistema. Quello che utilizziamo è quello di ordinamento giuridico in cui non possono coesistere norme incompatibili[20]. Tale situazione si chiama antinomia. Più precisamente, un’antinomia è un’incompatibilità fra due norme simultaneamente vigenti in un ordinamento giuridico in quanto in contraddizione. Es.: una norma comanda di fare una cosa e un’altra la proibisce; una comanda di fare e un’altra di non fare; una proibisce di fare e un’altra permette di fare (esempi a p. 213 Bobbio). Ad esempio, relativamente alla libertà di manifestazione del pensiero, si ritiene che l’art. 21 Cost. e gli articoli del codice penale che limitano alcune manifestazioni di tale libertà (reati d’opinione) rappresentino un’antinomia.

In questi casi una delle due dovrebbe essere eliminata. La coerenza dell’o.g. è una finzione: le leggi si sovrappongono e si rinnovano, e anche le migliori tecniche di formulazione non riuscirebbero ad evitare smagliature e scoordinamenti; la coerenza va intesa come vincolo di trarre comunque dal sistema le condizioni per risolvere il conflitto, cioè per stabilire quale norma applicare.

I criteri per la soluzione delle antinomie sono quattro: gerarchico, cronologico, della competenza, della specialità. In base al primo, detto anche della lex superior, fra due norme incompatibili prevale quella gerarchicamente superiore, quella dotata di maggior forza. In base al secondo, detto della lex posterior, fra due norme contrastanti che si trovano sullo stesso piano, prevale la norma successiva. In base al terzo, fra due norme contrastanti che appartengono a fonti che si trovano sullo stesso piano, prevale la norma appartenente alla fonte cui è stata attribuita la competenza (es. regolamento UE e legge ordinaria). In base al quarto, fra due norme incompatibili, di cui una generale e una speciale (o eccezionale), prevale la seconda.

Si può verificare un’antinomia fra due norme contemporanee, poste sullo stesso livello ed entrambe generali. Ad esempio, ciò può accadere per due norme che si trovano nello stesso codice. In tal caso non è stato individuato un criterio convincente che possa vincolare l’interprete (giudice, giurista), il quale resta abbastanza libero nella soluzione del conflitto, da realizzare secondo opportunità. In tal caso accade che le due norme sono entrambe valide, ma non entrambe efficaci, perché sarà efficace quella applicata dal giudice nel singolo caso.

Nel caso di conflitto fra una norma speciale precedente e una norma generale successiva, prevale la norma speciale.

Nel caso di conflitto fra una norma superiore generale e una norma inferiore speciale, non esiste una regola consolidata. Teoricamente dovrebbe prevalere il criterio gerarchico, ma in pratica l’esigenza di adattare la normativa alle sempre nuove situazioni poste dalla società porta spesso a far prevalere la legge speciale. Es.: l’art. 39 Cost. afferma la libertà sindacale, ma la legge 22-12-1956, istitutiva delle Partecipazioni statali, imponeva alle aziende a partecipazione statale di far parte di organizzazioni dei datori di lavoro diverse da quelle delle altre aziende.

Completezza dell’o. g. –  le lacune

Un ordinamento giuridico si dice completo quando è privo di lacune, cioè quando esiste una norma per ogni caso concreto. Si ha lacuna quando vi è un caso che non è regolato da nessuna norma. In tal caso manca il requisito della completezza dell’o. g. In teoria ogni sistema giuridico dovrebbe essere completo, ma di fatto anche la completezza, come la coerenza, è una finzione. Oggi ad esempio settori come le biotecnologie e la genetica possono creare problemi di individuazione del diritto in quanto la legislazione non sta al passo con le innovazioni.

Tuttavia il giudice è tenuto per legge a risolvere sempre la controversia che gli viene sottoposta, quindi anche in caso di lacuna. Lo Stato risponde come responsabile civile del fatto del giudice che abbia denegato giustizia, rifiutandosi od omettendo ingiustificatamente di pronunziare la sentenza nei termini di legge.

L’eliminazione delle lacune può avvenire ricorrendo: 1) all’analogia legis; 2) all’analogia juris, cioè ai principi generali del diritto.

Attraverso l’analogia si crea una norma nuova, non si effettua una interpretazione estensiva.

Esempi di lacune e ricorso ad analogia legis – 1) La vendita a scopo di garanzia non è disciplinata da alcuna norma; l’interprete potrebbe ricorrere all’art. 2744 c.c. che vieta il patto commissorio per vietare la vendita a scopo di garanzia.  2) Non c’è una norma che stabilisca eventuali obblighi del comodatario circa le riparazioni della cosa data in comodato; l’interprete può ricorrere all’art. 1577 c.c. che riguarda gli obblighi del locatore per le riparazioni della cosa locata.

Esempi di lacune e ricorso ad analogia iuris – 3) Caso dei coniugi Anselmi. Il marito, in conseguenze di impotenza di generare, acconsente ad inseminazione artificiale eterologa della moglie; nasce il figlio; dopo alcuni anni il marito chiede il disconoscimento di paternità ex art. 235 c.c. (tra le cause c’è l’impotentia generandi). La Cassazione dà ragione alla moglie richiamandosi ai principi generali dell’ordinamento (doveri di lealtà, buona fede e correttezza: il marito aveva dato il consenso), dunque non ritenendo applicabile l’art. 235 (approvato in un’epoca in cui la procreazione esigeva il rapporto fisico tra uomo e donna), e dunque postulando l’esistenza di una lacuna. 4) La maternità surrogata è una materia in cui il diritto inglese ha individuato lacune (la madre portante ci ripensa e si tiene il bambino).

Esempio di lacuna persistente: la non azionabilità in giudizio del diritto al lavoro proclamato dall’art. 4 Cost (Ferrajoli).

Altri esempi Nino p. 252.

Determinatezza dell’o. g.

Un o. g. è determinato quando le norme che lo compongono non sono vaghe o ambigue.

Economicità

La ridondanza si ha quando un o. g. fornisce troppe soluzioni per uno stesso caso; ad esempio, due norme disciplinano nello stesso modo gli stessi casi (le norme si ripetono).

Operatività: quando un o. g. e` suscettibile di concreta applicazione.

Il mutamento di un o. g.

Se cambiano le norme che costituiscono la base di un o. g., le regole fondamentali, l’o. g. è mutato, nello stesso territorio si è creato un o. g. diverso dal precedente. Tale mutamento può avvenire in due modi: 1) in maniera “irregolare”, nel caso di un colpo di stato o di una rivoluzione; 2) in modo regolare, quando tra le regole di un sistema ve ne sono alcune che prevedono un procedimento per la loro modificazione (es.: l’art. 138 della Costituzione italiana).


[1] I diversi orientamenti teorici non concordano sui contenuti della filosofia del diritto. Ad esempio, per l’orientamento giusnaturalista la filosofia del diritto comprende il compito ontologico e quello deontologico; mentre il giuspositivismo riserva alla filosofia del diritto i compiti deontologico e metodologico, configurando il compito ontologico nella forma della teoria del diritto, dunque in senso strettamente scientifico.

[2] Papiniano: “Una legge è un decreto avente carattere generale, frutto del parere dei legislatori, la repressione dei reati commessi deliberatamente o per ignoranza, un impegno generale della pubblica fede dello stato”.

[3] La principale critica rivolta all’istituzionalismo riguarda il silenzio sulla maggiore o minore giustizia dei gruppi sociali organizzati. Come nel caso di un’organizzazione criminale, l’ordine esiste all’interno dell’organizzazione (procedure per risolvere i conflitti), fra i suoi componenti, ma verso l’esterno vi è esercizio della violenza.

[4] Come Kant, Kelsen intende effettuare una “rivoluzione copernicana” e spostare l’attenzione dall’oggetto da conoscere al soggetto conoscente. Per superare lo scetticismo di Hume, Kant individuò le categorie, leggi a priori della mente in grado di organizzare le impressioni sensoriali e garantire la generalità e la certezza della conoscenza. Ad esempio, è la categoria della causalità che stabilisce un legame fra due fenomeni, A causa e B effetto. Kelsen intende compiere un’operazione dello stesso genere, identificando la categoria o forma attraverso cui noi riusciamo a conoscere il fenomeno “diritto”: e la individua nella categoria del “dover essere”, categoria puramente formale, a priori. Che non ha nulla a che vedere con il dover essere riferito ai valori della morale: significa semplicemente che tutta l’esperienza giuridica può venire espressa mediante giudizi del tipo “se A allora B deve essere”; dove A è un dato comportamento e B è una sanzione..

[5] Questa posizione, cioè il ricondurre l’individuazione del diritto all’accettazione di una norma sociale di riconoscimento da parte di un gruppo rilevante di individui, è la posizione del mainstream del giuspositivismo contemporaneo.

[6] Per la filosofia analitica (Wittgenstein), la filosofia non è una peculiare forma di conoscenza, bensì solo l’analisi logica del linguaggio. La conoscenza del mondo spetta alle diverse scienze; la filosofia è un metodo, la critica e la chiarificazione del linguaggio. Applicando ciò al diritto, ne segue che la filosofia (analitica) del diritto non è altro che l’analisi logica del linguaggio giuridico.

[7] B. Leoni, La libertà e la legge (1961), Liberilibri, Macerata, 1995.

[8] B. Leoni, op. cit., p. 170.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 171.

[11] B. Leoni, Lezioni di filosofia del diritto (1959), Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2003.

[12] C. Lottieri ha evidenziato la seguente difficoltà contenuta nell’elaborazione teorica di Leoni: mentre la negoziazione economica produce un esito pienamente legittimo, lo scambio delle pretese che fa emergere norme sulla base dei comportamenti e delle culture prevalenti non conduce necessariamente ad un risultato egualmente giusto. Ad esempio, in una società che mostri un’ampia accettazione verso condotte aggressive, è possibile che finiscano per essere ritenute giuridiche regole tutt’altro che coerenti rispetto a un quadro liberale.

[13] I principi giuridici che stabiliscono divieti, come la responsabilità civile o i crimini, devono essere distinti dalle leggi ordinarie o dai regolamenti amministrativi che stabiliscono richieste positive, del tipo “devi pagare la somma X di imposta” o “devi presentarti per il reclutamento in tale data”. In un certo senso, ovviamente, tutti i comandi possono essere formulati in una maniera tale da apparire come comandi negativi, ad esempio “non devi rifiutarti di pagare la somma X di imposta”, o “non devi disubbidire l’ordine di presentarti per il reclutamento”. Ma questa riformulazione è inappropriata.

[14] I seguaci di Austin, ovviamente, introducono di soppiatto nella loro teoria positiva un assioma normativo: il diritto deve essere ciò che il re ha proclamato tale. Questo assioma non viene discusso e non è basato su alcun insieme di principi etici.

[15] Di nuovo, queste varianti moderne e democratiche della teoria giuridica positivista introducono di soppiatto l’indimostrato assioma normativo secondo cui le leggi devono avere qualsiasi contenuto i legislatori o gli elettori desiderino.

[16] La lingua inglese mette a disposizione due espressioni diverse (law, right), di contro alla lingua francese (droit), tedesca (Recht) e italiana (diritto) che hanno un unico lemma e pertanto sono costrette ad aggettivarlo (diritto oggettivo, soggettivo) o a volgerlo al plurale per rendere i due diversi significati.

[17] Secondo un’altra scuola di pensiero la validità non è legata all’“esistenza”: in un ordinamento possono esistere anche norme invalide, ad esempio leggi incostituzionali o regolamenti contra legem che per un certo periodo di tempo vengono osservati, fino al momento in cui la loro invalidità viene riconosciuta dall’organo a ciò competente.

[18] Una distinzione più strutturata è quella fra legale, legittimo e giusto. Legale è ciò che è conforme ad una data norma positiva. Legittimo è ciò che va consentito sulla base di un criterio etico, ma non soggettivo bensì di filosofia politica (es. per il libertarismo l’usura è legittima, anche se non è legale praticamente in nessun sistema giuridico). Giusto è ciò che è corretto sul piano dell’etica personale (es. non mangiare carne di maiale, fare l’elemosina). In questa tripartizione dunque “legittimo” prende il posto di ciò che nel testo è stato definito “giusto”, e “giusto” (o “ingiusto”) viene limitato alla sola morale individuale.

[19] Nel 1996 la Corte Costituzionale ha accolto la prima tesi, ma una parte della dottrina sosteneva la seconda.

[20] Alcune classificazioni distinguono la coesione dalla coerenza: nella coesione (non le norme ma) i principi a cui sono ispirate le norme devono essere coerenti (non in conflitto) fra loro. Un esempio di mancanza di coesione è, all’interno della costituzione italiana, il comma 1 e il comma 2 dell’articolo 3, che affermano rispettivamente il principio dell’eguaglianza giuridica e il principio dell’eguaglianza sostanziale, palesemente in conflitto.

BIBLIOGRAFIA

  • Mauro Barberis, Manuale di filosofia del diritto, Giappichelli, 2011.
  • Mauro Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, 2004.
  • Norberto Bobbio, Teoria generale del diritto, Giappichelli, 1993.
  • Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Editori Laterza, 2011.
  • Angelo Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto, Giuffrè, 2008.
  • Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. I: Antichità e medioevo, Editori Laterza, 2012.
  • Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. II: L’età moderna, Editori Laterza, 2012.
  • Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. III: Ottocento e Novecento, Editori Laterza, 2012.
  • Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, 2000.


Categorie:H09- [FILOSOFIA DEL DIRITTO]

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