L’infinito nella storia della filosofia

Nella Grecia antica il concetto d’infinito fu elaborato dalla filosofia con numerose valenze negative, poiché i Greci ritenevano di poter conoscere solo ciò che fosse determinato e finito. Pertanto, l’infinito non era conoscibile. Con l’espressione «horror infiniti», ovvero «paura per l’infinito», si definì proprio questo rifiuto da parte degli antichi di considerare un infinito attuale, cioè concreto e visibile.

Aristotele, filosofo vissuto nel IV sec. a.C. , affermava: « …il numero è infinito in potenza, ma non in atto. […] questo nostro discorso non intende sopprimere per nulla le ricerche dei matematici per il fatto che esso esclude che l’infinito per accrescimento sia tale da poter essere percorso in atto. In realtà, essi stessi, allo stato presente, non sentono il bisogno di infinito, ma di una quantità più grande quanto essi vogliono, ma pur sempre finita […] ».
Da quanto disse Aristotele, l’unica idea accettata nell’antichità era l’infinito potenziale, inteso come divenire: un numero o una qualsiasi altra quantità, è potenzialmente in grado di tendere all’infinito, aumentandola ogni volta di poco, ma ogni volta risulta un’entità finita. Questo è chiamato processo di eccetterazione. È l’esempio dei numeri naturali: aggiungendo ogni volta un’unità ad un numero, si otterranno ogni volta quantità finite, ma che sembrano potenzialmente in grado di tendere all’infinito.
La concezione d’infinito potenziale, però, entrò facilmente in crisi, dando origine a problemi insormontabili e persino a paradossi.

Il celebre teorema attribuito a Pitagora: la somma dei quadrati costruiti sui due cateti a e b è equivalente al quadrato costruito sull’ipotenusa c.

Tornando indietro nel tempo di due secoli, incontriamo il primo Greco che forse ebbe a che fare con l’infinito: Pitagora di Samo, filosofo e matematico del VI sec. a.C. Egli fondò una scuola, detta appunto Pitagorica, presso la colonia greca di Kroton, l’odierna Crotone. Ispirato dalle discipline orientali, specie l’orfismo, Pitagora diede origine ad una sua filosofia e ad una vera e propria religione. Nella sua visione del mondo, tutti gli oggetti erano costituiti da un numero finito di monadi, minuscole particelle, simili agli atomi, che costituivano il sottomultiplo comune a tutti i segmenti. Perciò, due grandezze potevano essere espresse con un numero intero ed erano tra loro commensurabili, ammettevano cioè un comune denominatore, esattamente come 36 e 777 hanno 3 come divisore comune. Pitagora formulò inoltre una nuova disciplina attorno ai numeri interi, attribuendo loro valore divino. Secondo lui, il divino risiedeva nella completezza, nel finito. Ma il pensiero pitagorico fu messo in crisi dalla scoperta di grandezze incommensurabili, ovvero che non ammettono denominatori comuni con altre grandezze e questo fu il primo approccio, non molto gradito, con una forma di infinito attuale.
Tutto partì dal celeberrimo teorema di Pitagora sul triangolo rettangolo: il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti. Se applichiamo questo teorema su un triangolo rettangolo isoscele, che risulta essere metà di un quadrato, notiamo che il rapporto tra ipotenusa ed un cateto, così come tra lato e diagonale di un quadrato, è radice di 2. Questo numero è decimale, ma irrazionale, significa cioè che per determinare le sue cifre dopo la virgola, che sono del tutto casuali, bisognerà andare avanti nell’infinitamente piccolo:

1,414213562…

Questa scoperta non solo mise in crisi il Pitagorismo, tanto che fu proibito ai membri della setta di rivelarla, ma toccò profondamente il pensiero greco, poiché radice di 2, rappresentabile con un segmento geometrico, diventava un infinito concreto, non più potenziale. Ma tanti altri furono i casi in cui il pensiero greco trovò difficoltà a ricercare una qualche soluzione.

Attorno al 500 a.C. Zenone di Elea fu artefice di uno dei paradossi più famosi sull’infinito potenziale, in particolare, per dimostrare l’impossibilità del moto, ovvero il celeberrimo paradosso di Achille e la tartaruga. Segue una delle tante versioni di questo paradosso:
Supponiamo che Achille sia due volte più veloce della tartaruga e che entrambi gareggino su un percorso di un metro. Supponiamo inoltre che Achille dia mezzo metro di vantaggio alla tartaruga.
Quando Achille avrà percorso mezzo metro, la tartaruga si troverà un quarto di metro più avanti; quando Achille avrà percorso un quarto di metro, la tartaruga un ottavo a così via all’infinito: Achille non raggiungerà mai paradossalmente la tartaruga. Il problema sembra facilmente risolvibile, poiché Achille mantenendo una velocità costante sarebbe comunque arrivato in un tempo determinato non solo alla fine del percorso, ma anche alla tartaruga. Zenone, tuttavia, lasciò irrisolto il paradosso e, in effetti, seguendo il suo ragionamento sembrerebbe che non ci sia alternativa.
Ma da questo paradosso sono stati dedotti diversi concetti importanti: innanzi tutto, che la somma di infinite quantità infinitesime può risultare finita. Compare, infatti, per la prima volta l’idea di limite, cioè quel numero a cui una serie numeri tende, cioè si avvicina sempre di più, senza mai raggiungerlo. Il percorso di Achille è costituito da infiniti tratti, ma fermiamoci ai primi cinque e sommiamoli mano a mano:

1/2 + 1/4 = 3/4
3/4 + 1/8 = 7/ 8
7/8 + 1/16 = 17/16
17/16 + 1/32 = 31/32

È facile osservare come questa successione tenda ad 1 e sia praticamente uguale ad 1, cioè come si avvicini sempre di più ad 1 senza mai raggiungerlo ( 3/4; 7/8; 17/16; 31/32; …). Il concetto di limite fu dedotto completamente solo nell’Ottocento e costituisce uno dei punti più curiosi dell’infinito. Compare inoltre il discorso degli infinitesimali, cioè quell’infinito che anziché svilupparsi nel grande, si sviluppa nel piccolo, così come succede per le cifre decimali della radice di 2 e di altri numeri: i tratti del percorso di Achille, infatti, si rimpiccioliscono sempre di più, all’infinito. E qui si ricollegherà il problema del continuo, ma solo molti secoli più tardi.

Vediamo, intanto, altri due casi matematici, connessi tra loro, in cui l’infinito ebbe la sua parte: la rettificazione della circonferenza di un cerchio e la determinazione del valore di p, cioè del rapporto tra circonferenza e diametro. La misura della lunghezza della circonferenza appassionò molti studiosi antichi e tra questi ci fu Archimede di Siracusa, vissuto nel III sec. a.C. Archimede pensò di considerare innanzitutto un cerchio e di circoscrivere ed inscrivere ad esso poligoni regolari dello stesso numero di lati ( metodo di esaustione ). Dopodiché, ripeté più volte lo stesso procedimento, aumentando ogni volta il numero dei lati dei poligoni. Così facendo, ad ogni passo aveva dei poligoni che tendevano a coincidere sempre di più al cerchio. Facendo poi ogni volta la media tra i perimetri del poligono iscritto e di quello circoscritto, si approssimava la lunghezza della circonferenza: più si aumentava il numero di lati, più ci si avvicinava alla misura reale della circonferenza. Dividendo poi la circonferenza approssimata con la diagonale conosciuta ci si avvicinava sempre di più al valore di p. A questo punto nasceva un quesito: era possibile che alla fine di questo procedimento algoritmico si arrivasse ad un poligono con sufficienti lati tali da poter essere considerati archi infinitesimali della circonferenza stessa? Il filosofo Antifonte sosteneva di sì, considerava perciò la circonferenza un poligono con un numero infinito di lati. Aristotele contraddisse le sue affermazioni dal momento che Antifonte vedeva la circonferenza come un infinito attuale, non potenziale. Invece, Aristotele affermò che l’insieme dei poligoni iscritti ( e circoscritti ) nella circonferenza è un insieme illimitato nel senso che per ogni poligono, con un numero anche elevato di lati, ne esisterà un altro con un numero di lati ancora più alto, che non potrà comunque coincidere con a circonferenza, perché ne esisterà ancora un altro maggiore. Si ripropone di nuovo, dunque, il concetto di infinito come processo di eccetterazione e quindi come infinito potenziale. Per quanto riguarda p, si ebbe a che fare con un numero del genere di radice di 2, un numero irrazionale, i cui decimali proseguono nell’infinitamente piccolo.

Sempre nel III sec. a.C. si assistette alla nascita di nuovi paradossi sull’infinito partendo da alcune affermazioni del matematico Euclide. Nella sua opera intitolata Elementi elencò le cosiddette regole di deduzione logica, ovvero alcune nozioni ritenute intuitive ed evidenti. Tre queste:

1. le cose uguali ad una stessa cosa sono uguali tra loro
2. se a cose uguali si aggiungono cose uguali si ottengono risultati uguali
3. se a cose uguali si tolgono cose uguali si ottengono resti uguali
4. cose che coincidono l’una all’altra sono uguali l’una all’altra
5. l’intero è maggiore della parte.

Quest’ultima nozione fu il punto di partenza di numerosi paradossi, detti dell’equinumerosità.
Chiamiamo equinumerosi due insiemi che possono stabilire una corrispondenza tale che ad ogni elemento del primo insieme si possa collegare un solo elemento del secondo e viceversa, viene quindi creata una corrispondenza biunivoca.
Se l’insieme è finito non può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte e quindi la quinta nozione di Euclide risulta vera, ma non è così se l’insieme è infinito. Infatti, potremmo porci il seguente quesito: se consideriamo tutti i numeri naturali e da essi estraiamo solo quelli pari, otteniamo da questi la metà dell’intero insieme? I pari sono di numero minore o uguale rispetto all’insieme dei numeri naturali? Basta provare se ci sia una corrispondenza biunivoca:

Numeri naturali123456789
Numeri pari24681012141618

Si potrebbe andare avanti quanto si vuole e si troverebbe sempre una corrispondenza tra i due insiemi. Quindi, un insieme infinito è uguale ad una sua parte. Nel Seicento verrà ripresa questa idea dallo scienziato Galilei.

L’infinito fu discusso da altri filosofi greci. Ecco le loro opinioni a riguardo:

Anassimandro ( VI sec. a.C. ) fu il primo ad introdurre, secondo la tradizione, il termine archè, ossia “principio”, che identificò con l’apeiron, cioè con una sorta di infinito/indefinito da cui scaturiscono tutte le cose. Il processo di derivazione dall’apeiron consiste in una separazione dei contrari ( caldo/freddo; umido/secco; … ) che Anassimandro chiamò “ingiustizia”, poiché ogni nascita equivale ad una colpevole separazione dalla sostanza originaria e richiede l’espiazione della morte, per ricongiungersi con essa. L’apeiron è ritenuto elemento divino, in quanto forza immortale ed indistruttibile, che abbraccia e regge l’universo.

Anassagora ( V sec. a.C. ) scrisse un’opera intitolata Sulla natura, in cui sostenne che nulla si genera dal non-essere, ma che tutto viene dal tutto. Secondo lui, in origine tutto era mescolato insieme e la nascita delle cose avviene per separazione da altre cose. Esiste poi un infinito numero di principi detti semi aventi “forme, colori e gusti d’ogni genere”. Questa concezione ammette che in ogni cosa sono comprese tutte le qualità ( “tutto è in tutto” ) allo scopo di spiegare in maniera non contraddittoria il divenire, e in particolare il nascere e il morire, come sviluppo delle stesse qualità legate agli esseri e non cose creazione e annullamento di nuove qualità.

Democrito di Abdera ( V sec. a.C. ) suppose che l’universo fosse infinito ed immutabile poiché non era opera di nessun artefice.

Gli Stoici, la cui scuola filosofica fu fondata ad Atene nel IV sec. a.C. , sostenevano che l’universo continuasse a formarsi e a distruggersi più volte. In ogni nuovo cosmo, gli astri sono disposti nella stessa posizione e sulle stesse orbite del periodo precedente, ci sono gli stessi uomini di prima, le stesse città, gli stessi territori. Questo continuo rinnovamento delle cose nella stessa forma avviene all’infinito.

Plotino ( III sec. d.C. ) fu il fondatore del neoplatonismo. Rifondò in modo sistematico la metafisica dell’Uno. Ogni cosa deve avere un’unità, per poter esistere, se ne viene privata, muore. Egli credeva nell’esistenza di un essere superiore divino, definito l’Uno supremo, forza generatrice, che emana diversi livelli di realtà e l’uomo ne percepisce solo l’ultimo. Plotino parla dell’Uno, nell’opera Enneadi, con queste parole: « La sua infinitezza dipende dal fatto che Egli non è “più di uno” e che non c’è nulla che possa qualcuna delle cose che sono in Lui; proprio perché è Uno, Egli non è misurabile né numerabile. Egli non trova un limite, né in altri, né in se stesso, poiché se così fosse, sarebbe dualità. Non ha dunque figura, in quanto non ha parti né forma. »

Ma l’infinito non fu studiato solamente in Grecia. Molto più lontano, nella Cina antica, diversi filosofi e scienziati arrivarono all’incirca alle stesse conclusioni non solo sull’infinito, ma anche in numerosi argomenti matematici e astronomici. Essi calcolarono approssimativamente p, l’area del cerchio e i volumi della sfera e della piramide, più o meno seguendo gli stessi ragionamenti dei Greci. Non si sa se tutto ciò fu frutto dei Cinesi o ci fu un’influenza ellenistica, tramite la Via della seta.

Alla fine del IV sec. a.C. Hui Shi, primo ministro del re Hui di Wei, retore e autore di un codice giuridico oggi andato perduto, illustrò l’infinità divisibilità di un segmento di retta per dicotomia:
« Resterà sempre qualcosa di un bastone di un piede [ di lunghezza ] da cui si toglie ogni giorno la metà, anche in capo a diecimila generazioni ». Il suo ragionamento è simile a quello di Zenone nel suo paradosso di Achille e la tartaruga.
Per di più, Hui Shi affermava che era insieme possibile ed impossibile sommare gli infinitesimi:
« Ciò che non ha dimensione non può essere sommato, ma finisce tuttavia per arrivare ad un migliaio di li [unità di misura cinese ] ». Questa affermazione risulta priva di senso, per quanto i sinologi abbiano cercato di trovarne un contesto: forse una discussione fra atomisti e non atomisti sull’infinita divisibilità di un segmento, oppure un dibattito tra geometri sulla dimensione del punto e sullo spesso del piano, o una ancora una dimostrazione dei limite del linguaggio tramite fresi assurde.

Alla fine del III sec. a.C. , al tempo della dinastia Han, il matematico Liu Hui notò in un suo testo che la radice quadrata di certi numeri non può essere calcolata in maniera esatta e spiegò che l’operazione a volte prosegue all’infinito. Egli capì intuitivamente lo sviluppo decimale illimitato. Si occupò anche dell’area del cerchio e del valore di p, attraverso un metodo molto simile a quello usato da Archimede, iscrivendo un cerchio fra due successioni illimitate di poligoni e di ruote dentate e aumentando ogni volta i lati dei poligoni. Anch’egli arrivò a dire che a lungo andare « il poligono si sarebbe confuso con il cerchio ».

Troviamo durante la dinastia degli Han posteriori ( I sec. d.C. ) che un astronomo di nome Qi Meng postulò che l’universo fosse illimitato nel tempo e nello spazio. Tuttavia, i Cinesi non si occuparono molto di cosmologia, ma soprattutto di astronomia per determinare la data delle congiunzioni tra Sole, Luna e pianeti, che fu il punto di partenza per la formazione del calendario.

L’infinito in epoca moderna.

Finita l’epoca buia del Medioevo, si distinsero diverse personalità che contribuirono ad arrivare alla concezione moderna d’infinito.

Nel Seicento, il fiorentino Galileo Galilei (1564-1642) considerato il fondatore della scienza moderna, fu uno dei primi scienziati a mettere in discussione il concetto d’infinito elaborato dalla filosofia greca. Egli affermò la possibilità di dividere un continuo limitato (come un segmento) in infiniti elementi primi, senza estensione ed indivisibili. Poiché un segmento può essere diviso in tante parti ancora divisibili, si deve necessariamente ammettere che esso sia composto da infinite parti. Ma se queste parti sono infinite devono essere prive di estensione, poiché infinite parti estese hanno un’estensione infinita, mentre il segmento ha un’estensione limitata. Il segmento diventa quindi una manifestazione dell’infinito in atto. Anche la circonferenza è un esempio di infinito attuale: la possiamo, infatti, intendere come un poligono regolare di infiniti lati.
Ammettendo l’esistenza dell’infinito attuale, Galilei andò, però, incontro a diversi paradossi che non riuscì a risolvere. Eccone alcuni:
Il paradosso dei quadrati. I numeri quadrati sono solo una parte dei numeri naturali. È, però, possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei numeri naturali e quello dei quadrati.

Numeri naturali123456789
Numeri quadrati149162536496481

Sono, perciò, due insiemi equinumerosi.

Il paradosso della ruota. Due ruote concentriche, tali che la più grande rotoli sopra una retta, toccano con i loro punti due segmenti di uguale lunghezza AB.

Facendo fare un giro completo alla circonferenza più grande fino a D, la più piccola arriverà a B. Ma CD = AB. Come può ora il cerchio minore compiere un solo giro « senza salti » su una linea più lunga della sua circonferenza? Anche in questo caso c’è bisogno di stabilire una corrispondenza biunivoca tra la circonferenza grande e quella piccola ( e quindi tra un segmento ed una sua parte). Basterà proiettare dal centro in comune i punti della circonferenza minore su quella maggiore. Il paradosso, dunque, sta nella possibilità di stabilire una corrispondenza biunivoca tra un segmento continuo e una sua parte.
Galileo, non riuscendo a risolvere i suoi paradossi, arrivò a negare, come matematico, la possibilità d’indagare l’infinito, poiché, secondo lui, una mente limitata come quella dell’uomo non era capace di studiare quantità infinite.
Tuttavia, non si arrestarono qui gli approcci con quantità infinite. Proprio dal Seicento si sviluppò il cosiddetto calcolo infinitesimale, che riguardava, cioè, l’infinitamente piccolo. La svolta operata dagli innovatori doveva basarsi proprio sull’abbandono delle riserve tradizionali nei confronti del ricorso all’infinito.
Il primo a compiere un passo decisivo in questa direzione fu Johannes Kepler ( 1571-1630 ) che concluse la sua famosa Nova stereometria doliorum ( Nuova misura del volume delle botti ) del 1615, in cui sviluppò le sue considerazioni di tipo infinitesimale per giustificare un criterio empirico usato dai bottai austriaci, con un Supplementum ad Archimedem ( Supplemento ad Archimede ), dove i volumi di alcuni complicati solidi vengono calcolati mediante la suddivisione di essi in un numero ( tendente all’infinito ) di corpiccioli piccolissimi ( al limite infinitesimi ).
Un secondo importante passo è compiuto da Bonaventura Cavalieri (1598-1647 ) che introdusse il famoso metodo degli indivisibili, basato sulla concezione delle linee come insiemi infiniti di punti e, analogamente, delle regioni piane come insieme di linee e dei solidi come insieme di superfici. Egli era convinto che questo metodo, se bene applicato, non potesse condurre ad errori, ma i fedeli di Archimede sollevano contro di esso numerose obiezioni. Il più autorevole di tali fedeli fu il gesuita Paolo Guldino, il quale obiettò che il continuo è senza dubbio divisibile all’infinito, ma non consta di infinite parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali non possono essere mai esaurite. Emerge qui la distinzione ( risalente ad Aristotele ) fra infinito in atto ed infinito in potenza, che avrebbe costituito uno dei temi centrali dei dibattiti intorno al nuovo calcolo.

Il teorema di Torricelli.

Sulla linea di Cavalieri, invece, troviamo Evangelista Torricelli ( 1605-1647 ), fisico e matematico, il primo a misurare la pressione atmosferica. Uno dei risultati ottenuti da Torricelli con l’applicazione del metodo degli indivisibili che più riscosse l’ammirazione dei contemporanei fu il calcolo del volume del solido iperbolico, ottenuto dalla rotazione di un iperbole attorno all’asse y. Tale problema « degli aspiranti Geometri, sembrerebbe non solo difficile, ma addirittura impossibile » scriveva in un suo trattato, intitolato Sulla misura della parabola e del solido iperbolico. Continuava così: « Infatti nelle trattazioni scolastiche di geometria si trovano misure di figure limitate da ogni parte e […] nessuno che io sappia ha estensione infinita. E se si propone di considerare un solido oppure una figura piana infinitamente estesa ciascuno pensa subito che una figura di questo genere debba essere di grandezza infinita. Eppure esiste un solido di grandezza infinita ma dotato di una sottigliezza tale che per quanto prolungato all’infinito non supera la mole di un piccolo cilindro. Esso è il solido generato dall’iperbola […]» che Torricelli chiama “solido iperbolico.
Ed ecco il suo teorema, in cui fa uso degli indivisibili:
« Il solido acuto iperbolico infinitamente lungo, tagliato con un piano perpendicolare all’asse, insieme con il cilindro della sua base, è uguale ad un cilindro retto la cui base sia il lato verso, ovvero l’asse dell’iperbole, e la cui altezza sia uguale al semidiametro della base del solido acuto. »

Diversi generi di problemi conducevano all’introduzione in matematica dell’infinito ( in grandezza o in piccolezza ), come lo sviluppo della meccanica. Galileo diede un contributo decisivo a questo sviluppo, iniziando lo studio sistematico della cinematica. Sono proprio i concetti più caratteristici della cinematica come quelli di velocità e di accelerazione che esigono di prendere in considerazione rapporti fra grandezze infinitamente piccole. In termini moderni: la velocità è il rapporto tra lo spazio percorso da un mobile e l’intervallo di tempo impiegato a percorrerlo quando questo tempo tende a zero. L’accelerazione è l’analogo rapporto tra la variazione di velocità ed il corrispondente intervallo di tempo richiesto per tale variazione, quando questo tempo tende a zero.
Altro tipo di problemi fu di natura geometrica, ma non più legato alla determinazione delle aree e dei volumi bensì a quella delle tangenti. Gli antichi matematici greci avevano preso in considerazione solo pochi tipi di curve, ideando di volta in volta qualche metodo particolare per la determinazione delle tangenti alle principali fra esse ( circonferenze, ellissi ) .
Nel Seicento la creazione della geometria analitica ad opera di Cartesio e Fermat condusse ad un radicale ampliamento del concetto di curva e di conseguenza aprì la via al fondamentale problema della ricerca delle tangenti ad una curva generica.
Mentre le ricerche dirette a determinare tangenti, punti di massimo o di minimo, velocità istantanee ed accelerazioni istantanee fanno parte del calcolo differenziale, quelle volte a determinare lunghezze, aree e volumi fanno parte del calcolo integrale. Cosa sono esattamente questi due tipi di calcoli?
Il calcolo differenziale si occupa dello studio delle variazioni delle funzioni a una o più variabili. Siano x e y due variabili legate dalla relazione y = f(x), dove f è una funzione che indica in che modo il valore di y (variabile dipendente) dipenda da x (variabile indipendente). Ad esempio, x potrebbe rappresentare la variabile temporale e y lo spazio percorso da un corpo in moto nel tempo x.
Il calcolo integrale, invece, riguarda l’integrazione, cioè l’operazione inversa rispetto alla differenziazione. Data una funzione f, lo scopo dell’integrazione è trovare una funzione F la cui derivata sia f, cioè F¢ = f; la funzione F si dice integrale, o primitiva di f. Questo calcolo serve appunto a determinare aree e volumi di figura o solido geometrici costituiti da qualsiasi tipo di curva.
I due calcoli trassero origine da problemi notevolmente diversi, pur caratterizzati tutti dall’applicazione di procedimenti infiniti. Si trattava ora di individuare il rapporto tra tali generi di calcolo, il che richiedeva come prima tappa il passaggio dal concetto di “ integrale definito “ di una funzione a quello di “ integrale indefinito “ e di comprendere poi che questo integrale è una nuova funzione, la cui derivata risulta uguale alla funzione integranda.
Il merito di avere chiarito questo rapporto spetta a Newton e Leibniz, i quali vennero considerati gli “ inventori “ dell’analisi infinitesimale, cioè del calcolo differenziale e del calcolo integrale.
Isaac Newton ( 1642-1727) elaborò il suo nuovo calcolo, chiamato calcolo delle flussioni, quando era poco più che ventenne, ma non pubblicò che parecchi anni più tardi gli scritti dedicati all’esposizione delle proprie idee sull’argomento. Newton enunciò le principali regole di derivazione e quelle di integrazione, a determinare con esattezza il legame che intercede fra i due calcoli, ad impostare e risolvere alcune equazioni differenziali, a farne numerose applicazioni alla geometria ed alla meccanica, ma i termini con cui si esprimeva mancavano di chiarezza e semplicità.

Gottfried Wilhelm Leibniz ( 1646-1716 ) cominciò ad interessarsi di analisi infinitesimale nel 1672 e poco dopo ebbe occasione di entrare in contatto con l’ambiente dei matematici inglesi (incluso lo stesso Newton), contatto che lo stimolò a proseguire ed approfondire questo genere di indagini. Egli riscoprì da sé il calcolo infinitesimale, ma, a differenza di Newton, seppe esprimersi in un linguaggio più chiaro e maneggevole. Egli, infatti, definì “derivate” le famose “flussioni” di Newton e “integrali” le “fluenti”, sempre di Newton. Questa su chiarezza e semplicità non riguardò solamente le denominazioni usate, ma soprattutto l’introduzione degli indivisibili, che evitavano i lunghi giri di parole e formule di Newton. Con la lettera d, da leggersi “de”, indicò questi indivisibili dello spazio, o differenziali, enti privi di estensione. Cerchiamo ora di spiegare a grandi linee come Leibniz utilizzò questi indivisibili con un esempio. Consideriamo una curva sul piano cartesiano: usando il calcolo differenziale, la curva viene ottenuta mediante una derivata y = f(x), secondo cui ad ogni valore sulla retta x, corrisponde un determinato valore della variabile y. Segnando sul piano tutte le y in funzione delle x, si ottiene appunto questa linea. Vogliamo ora calcolare la lunghezza di un arco della curva, attraverso il calcolo integrale. Possiamo considerare quest’arco come la somma di tutti i punti infinitesimali che lo compongono. Consideriamo ora un punto, o l’indivisibile, sulla retta x e prendiamo il punto corrispondente sull’arco di curva.
Immaginiamo di ingrandire quest’ultimo e di ottenere la figura a lato: l’indivisibile della retta x è compreso tra xo e xo+h, mentre l’indivisibile corrispondente sulla curva è compreso tra A e B, che chiamiamo ds. Ciò che ci interessa è AB, il quale si trova ad essere l’ipotenusa di un triangolo rettangolo, i cui cateti sono h, ovvero dx (l’indivisibile parallelo alla retta x) e k, ovvero dy (l’indivisibile parallelo alla retta y).

Quindi, si applica prima di tutto il teorema di Pitagora:ds² = dx² + dy²
Poi si divide tutto per dx²:ds²/dx² = 1 + dy²/dx²
che è riscrivibile :(ds/dx) ² = 1 + (dy/dx)²
si estrae ora la radice quadrata di entrambe i termini:ds/dx = (1 + (dy/dx)²)^(1/2)
e si porta dx dall’altra parte:ds = (1 + (dy/dx)²)^(1/2) ·dx
La lunghezza dell’arco da calcolare si ottiene con la derivata

Fu proprio Leibniz a determinare il tipo di algebra applicabile ai differenziali, scoprendo che essa risulta per molti aspetti analoga alla solita algebra valida per le grandezze finite. E fu lui, inoltre, ad introdurre la notazione ò. L’indiscutibile successo conseguito dalla formulazione leibniziana dell’analisi infinitesimale non fu esente da inconvenienti, in quanto favorì una certa confusione fra l’algebra degli infinitesimi e l’algebra delle grandezze finite, a tutto danno di una trattazione rigorosa dell’importante argomento. Solo nell’Ottocento i problemi ad esso connessi vennero notevolmente chiariti con la dimostrazione che tutta l’analisi infinitesimale classica si fonda sul concetto di limite. Senz’altro, però, grazie alle importanti scoperte di Newton e Leibniz, il mondo moderno e contemporaneo si trovò dotato di un nuovo strumento validissimo per lo sviluppo non solo della matematica, ma di numerosissimi campi scientifici, trovando un’importantissima praticità ed attualità del calcolo infinitesimale.

Nella prima metà del secolo XIX, Agostino Luigi Cauchy, dopo avere definitivamente sistemato la teoria dei limiti, definì, in accordo col Mengol, l’infinitesimo come una grandezza variabile avente per limite lo zero. Così il calcolo differenziale veniva finalmente a trovare la sua base sicura ed era messo al riparo dagli attacchi che da varie parti gli erano stati mossi. Precisati i principi, restava da compiersi una revisione accurata di tutti i procedimenti e di tutte le proposizioni dell’analisi infinitesimale. A questa opera critica si dedicarono , nella seconda metà del secolo XIX, insigni matematici tra i quali ricordiamo: Weierstrass, Dedekind, Riemann, Cantor, Heine, Darboux, Dini, Peano.
Il concetto fondamentale su cui poggia tutta l’analisi infinitesimale moderna è quello di limite e da essi deriva immediatamente quello di infinitesimo. Chiamasi, infatti, infinitesimo ( secondo le vedute di Mengoli e Cauchy ) ogni variabile numerica tendente allo zero, cioè ogni variabile che, in valore assoluto, può assumere valori minori di un numero positivo scelto piccolo a piacere.
Collegato al calcolo infinitesimale, procedette a pari passo quello delle serie infinite. La prima serie infinita comparsa nella storia della matematica è quella celebre del paradosso di Zenone:

1/2 + 1/4 + 1/8 + … = 1

Questa serie, inoltre, dimostrò di avere 1 come limite, ovvero come somma conclusiva degli infiniti infinitesimi. Numerose altre serie infinite furono scoperte in epoca moderna, molte di esse ammisero un limite, come quella di Zenone, altre invece, si dimostrarono divergenti, come la seguente:

1 + 1/2 + 1/3 + 1/4 + …

che non presenta limite o convergenza.
Il matematico svizzero Leonhard Euler ( 1707-1783 ) scrisse in particolare un trattato intitolato Introductio in analysin infinitorum in cui prese in esame proprio le serie infinite convergenti e pose le basi della moderna analisi matematica. Egli scoprì diverse serie infinite connesse con p, eccone alcune:

1/1² + 1/2² + 1/3² + 1/4² + … = p²/6
1/14 + 1/24 + 1/34 + 1/44 + … = p^4/90

Si presentò, però, un interessante paradosso: vale la proprietà commutativa dell’addizione con queste serie? Ovvero, si ottiene lo stesso risultato se invertiamo l’ordine degli addendi? Con una serie finita, vale:

2 + 4 + 6 = 6 + 4 + 2

Ma con le serie infinite, è stato dimostrato che non è valida questa proprietà. Scambiando gli addendi in una serie infinita si altera, infatti, il limite a cui tende quella serie!

George Cantor

Con il XIX secolo, sembrava conclusa la questione sul concetto d’infinito. Ma non finì qui. Finora, infatti, l’infinito attuale non era stato considerato con tutto rispetto, ma semplicemente come un numero grandissimo o piccolissimo. A rivoluzionare la visione d’infinito, fu, quindi, Gorge Cantor. Egli prese in considerazione l’infinito nella sua totalità, ma la vera rivoluzione fu l’introduzione di ordini di infinito, idea assolutamente assurda per l’epoca, poiché fino ad allora si riteneva di non potersi spingere oltre l’infinito.

Innanzitutto, Cantor confermò il fatto che un insieme infinito poteva essere messo in corrispondenza biunivoca con un suo qualunque sottoinsieme, concetto già sfiorato, ma lasciato irrisolto, da altre personalità del passato come Galilei. Poi definì un insieme infinito numerabile, se poteva essere messo in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri naturali. Prese dapprima in esame insiemi infiniti cosiddetti discreti, ovvero con intervalli tra un elemento e l’altro, e li riconobbe numerabili. Sono insiemi numerabili discreti i numeri pari, i numeri dispari, i quadrati, i numeri primi. Ma nel 1974, dimostrò che anche insiemi infiniti densi, tra i cui elementi, cioè, ne esistono altri, sono numerabili. È il caso dell’insieme dei numeri razionali, cioè quei numeri esprimibili con una frazione, ovvero con un rapporto tra numeri interi. Cantor riuscì a trovare un metodo per ordinare in maniera sistematica tutti i numeri razionali.

Considerò una tabella in cui dispose tutte le frazioni, ponendo sulla prima riga le frazioni con denominatore 1, sulla seconda quelle con denominatore 2 e così via.

1/12/13/14/15/1
1/22/23/24/25/2
1/32/33/34/35/3

Cantor pensò ora di ordinarli seguendo il percorso delle frecce all’infinito:

Arrivò così a dedurre che anche un insieme denso come quello dei numeri razionali fosse numerabile e definì gli insiemi numerabili, insiemi di potenza 0 ( è la prima lettera dell’alfabeto ebraico e si legge “alef” ).
Ma non tutti gli insiemi infiniti sono numerabili nel modo in cui intendeva Cantor, cioè ordinando in modo definito gli elementi e ponendoli in rapporto 1:1 con l’insieme dei numeri naturali.
Tra questi insiemi non numerabili, c’è l’insieme dei numeri reali, formato dai numeri razionali ed irrazionali. Nel 1972, Richard Dedekind scrisse un trattato sui numeri irrazionali, Stätigkeit und die irrationale Zahlen, in cui affermò che i numeri razionali, per quanto siano densi, non costituiscono un continuo, ma ammettono dei “buchi”, che non sono altro che gli irrazionali, cioè quei numeri non esprimibili con una frazione, come radice di 2. Cantor si rese conto che esistevano sempre nuovi numeri tra due elementi dell’insieme reale, infinitamente piccoli. Questo insieme è paragonabile ad una retta geometrica, in cui tra due punti ne esiste sempre un terzo e che ha, come disse Cantor stesso, lo stesso numero di punti di un qualsiasi segmento. Definì, quindi, i numeri reali un vero e proprio continuo numerico, la cui potenza fu espressa con C o con 2^0 , maggiore di 0. Per di più, mentre non ammise infiniti con potenza inferiore a 0, Cantor trovò infiniti maggiori di C. Arrivò, infatti, a pensare che l’insieme di tutti i sottoinsiemi di un insieme fosse maggiore dell’insieme di partenza, cosa veritiera per un insieme finito. Estendendo questa idea agli insiemi infiniti, ed usando un po’ di astrazione della mente, diede vita a potenze maggiori di C, riconoscendo che il procedimento di considerare l’insieme di tutti i sotto insiemi potesse essere ripetuto all’infinito. Creò, così, una gerarchia di insiemi infiniti, in cui ogni insieme è più numeroso ed ha potenza maggiore del precedente. Infine, chiamò le potenze ottenute 0, 2^0, 2^(20), … numeri cardinali transfiniti ed elaborò una vera e propria aritmetica con questi nuovi numeri, in cui esistono regole assai strane ed innovative.
Con Cantor sembrò veramente concluso il tentativo di chiarire in assoluto in concetto di infinito.

Fonte: Progetto Polymath



Categorie:B01- Presocratici

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