BIBLIOTECA DIGITALE UMANISTICA
Sonetto 1
Dagli occhi de Madonna el solfo prende
Amore, et ha per mantici i desiri
vani: el cor soffia un vento de sospiri,
che in me, che stopia sum, la fiamma incende.
E lei, quando pur scalda, giova e offende
el cor mio stanco, e fra dolci martiri
l’alma, qual uom che or ami et or s’adiri,
in un momento ella mi toglie e rende.
Così di lode e di lamenti io strido,
e nel mar navigando senza remo
longe da lito, a salvo porto arrivo.
Così ridendo io piango e in pianto rido
temendo io spero e nel sperar più temo,
moro vivendo e poi morendo io vivo.
Sonetto 2
De doe trece racolte in crespi nodi
Amor fe’ el laccio che me avolse al collo,
e poi lo strinse, sì che nulla pòllo
soglier, se Morte non sia che lo snodi
Dal lume de quegli ochi, che in tal modi
gitta talor, che invidia move Apollo,
reacesse il pecto dentro, e sì avampollo,
che sol di suspirar par che lui godi.
Gli acti suavi, inizio del mio male,
ché i marmi fan di cera l’arte maghe
furon quel cun qual me involò a me stesso.
Le belle acorte parolette vaghe
nel cor se l’anidaro, che poi spesso
per volar d’indi indarno spiega l’ale.
Sonetto 3
Amor, che gli ochi mei facti han dui fiumi,
a nova piaga più non resta loco,
e sì distructo m’ha l’antico fuoco,
ch’altra fiamma non ha che più consumi.
El dir, che per cangiar e’ fier costumi
d’altrui s’affaticò già tanto, è roco;
el viso in contemplar colei è fioco,
ch’abaglia noi, benché p’ogni altro alumi.
E pur m’aventa una nova ferita
Amore, e un’altra face che più m’arda;
né l’empietà d’altrui a dir mi move,
né men belleza vòl ch’ancor io guarda.
Così par che riposso el cor non trove,
s’Amor, Madonna, o Morte non me aita.
Sonetto 4
Dapoi che doi begli ochi, che mi fanno
cantar del mio Signor sì novamente,
avamparo la mia gelata mente,
si volge in lieta sorte il secondo anno.
Felice giorno, che a sì dolce affanno
fu bel principio, onde nel cor si sente
una fiamma girar sì dolcemente,
che men beati son che in celo istanno!
L’ombra, le piume e la pigricia e l’ocio
m’avean conducto dove la più parte
è di color di cui non si fa stima,
ma Amor mi scorsi a più degno negocio.
E se dolce ad alcun par la mia lima,
Madonna è quella, e non l’ingegno o l’arte.
Sonetto 5
Amor, focoso giacio e fredda face;
Amor, mal dilectoso e dolce affanno;
Amor, pena suave et util danno;
Amor, eterna guerra senza pace.
Amor, tetro timor, speme fallace;
Amor, bugïa, fraude, sdegno e inganno;
Amor, false promesse, che l’uom fanno
gioir del mal come d’un ben verace.
Amore, amaro felle, amaro asenzio;
Amor, vane speranze e van destri;
Amor, roco parlar, longo silenzio.
Amor, faville, lacrime e sospiri;
Amor, segnor crudel più che Mezenzio,
che gode sempre de gli altrui martiri.
Sonetto 6
Quando del sol la corruscante rampa
risplende, e quando a noi la nocte viene;
quando di neve son le spiage piene,
quando Zefir di fior le pinge e stampa,
quel mio nimico da cui uom mai non scampa,
per farme viver sempre in doglia e in pene,
cun lumi, faci, stral, fiamme e catene
mi piglia, punge, lega, abaglia, avampa.
E se talor di quei pensier io m’armo,
che sì forte mi fan, ch’io giurerei
d’esser più forte che mai petra o marmo,
sùbito poi, né come dir saprei,
ardo qual cera e me stesso disarmo,
in soccorso d’Amore e danni mei.
Sonetto 7
Un sguardo altero e vergognoso e vago,
un minio che uno avorio bianco pinge,
gli ochi mei stanchi a lacrimar suspinge
mutandoli in un rivo, un fiume, un lago.
E mentre lor contemplan l’altrui imago,
perdo la propria, e for di me mi spinge
el vigor di quei lumi ch’Amor tinge
e ‘l stral contra cui mai valse erba né mago.
Così mentre si scorda la ragione
di sé, vincta dal cieco et amoroso
desio, qual uom rimango che non sente;
e ben che ‘l cor per ciò provi un noioso
stato, ben se ne dol, ma non se ‘n pente,
quasi che goda de la sua pregione.
Sonetto 8
Dapoi che me convien in altra parte
volger i passi e pur lassar colei
che a pianger ne commove a invidia i dei,
che ‘l nostro cor divise in mille parte,
l’alma nostra non già da qui si parte,
anzi rimane in compagnia di lei
ch’odì piatosamente i sospir mei,
e sol di noi se ‘n va la più vil parte.
Ferma speranza, immaculata fede,
memoria d’una mente altera e pia,
un amoroso desio, un giacio, un fuoco,
un vago lume, ove d’Amor se vede
la forza, un dolor longo, un breve gioco
sempre saran cun me, Donna, fra via.
Sonetto 9
Io preso sono come un pesce in rete,
come ucello che ai rami l’ale invesca,
e son posto in pregion né vedo und’esca,
né men son pur mie voglie ardite e lete.
E sì com’io bevesse al fondo Lete,
di me mi scordo e par che non m’incresca
l’infelice mio stato, anzi s’infresca
ognor dal vagagiar la ingorda sete.
Dolci sospiri e dolce ogni tormento,
dolce le doglie son, dolci gli affanni,
dolce el pianto, el languir, dolce el lamento:
tanto può Amor cum soi fallaci inganni!
Tal, mal mio grado, al nostro mal consento,
e lui ringrazio ancor poi de mei danni.
Sonetto 10
Amor m’ha posto como al giogo el bue,
como al sol brina, e son qual uom ch’è privo
di sentimento, e s’el sia morto o vivo
de iudicar ne sta spesso intra due.
Tanto può in me con le bellezze sue
quel bel viso legiadro, altero e divo,
de cui piangendo in tante carte io scrivo,
adombrandone el stile or una or due.
Ma tu, fiero Fanciul, perché disciolta
lassi andar lei e ognor più stretto leghi
el cor, che fu legato un’altra volta?
Perché non li comandi, o non la preghi
che, mentre l’alma è nel corpo sepolta,
premio alla nostra servitù non neghi?
Sonetto 11
Ch’io languisca tuttora amando quella
di cui la viva imagine, ch’io scolpo
ne la mia mente afflicta, und’io mi spolpo,
fa che ‘l spirto dei membri mei si svella,
no ‘l Cel, non la Fortuna o la mia stella,
non quel da cui discese el mortal colpo
qua giù nel cor, non la mia donna incolpo,
ma solo el Mastro che la fe’ sì bella.
Quivi el vigor, quivi la sua potenzia,
quivi mostrò sue forze manifeste,
quivi l’arte, l’industria, la prudenzia;
quivi mostrò come un spirto celeste
coprir se può, per sua onnipotenzia,
sotto mortal, caduca e fragil veste.
Sonetto 12
Ochi, fate el terreno umido e molle
dove il polve segnò collei col passo,
ch’or fa vostro vigor, fugendo, casso,
che in quel che non è lei oprar non volle.
Piangete, rivi, piangete, ombroso colle;
pianga ogni sterpo, ogni virgulto e sasso,
in compagnia del cor languido e lasso,
che Madonna nel suo partir ne tolle.
Piangete, Ninfe e voi che nel paese,
Driade, sete; e tu, arïa, piagne
per la partita del tuo chiaro sole.
Pecto, suspira; e tu, mia lingua, lagne;
orechie, non odete più parole:
da ogn’altra voce voi serete offese.
Sonetto 13
Or su, ponete mo ne la Fortuna
vostre speranze, o miseri mortali,
che a l’uom, quanto più vola, tarpa l’ali,
facta di bianca in un momento bruna!
Cosa ferma non è sotto la luna!
E poi che fra sì pochi beni e frali
cagion è un viver longo a tanti mali,
felice è chi de vita è spento in cuna.
O almanco, mentre el celo è amico a noi,
compire alora la giornata nostra
è meglio che aspetare in sin a sera.
Oh quanto è amaro a l’uom a dir – Io foi! –
E certo apertamente ne ‘l dimostra
quanto sia cieco chi nel mondo spera.
Sonetto 14
S’io vi guardo, Madonna, el vigor che esce
de quei lumi leggiadri mi fa un sasso;
se gli ochi altrove io volgo o a terra abasso,
manco qual tracto fuor de l’unda pesce.
Così ogni nostro operar a mal riesce,
e son già del passar sì vinto e lasso,
che sol de non aver al primo passo
compìto el mio camino el me rincresce.
Io ne adimando a Amor spesso consiglio,
che, mal per me, fui süo, se l’antica
sua medicina al cor infermo offende;
et ei par che a l’orechia, al cor mi dica:
– Gemina el sguardo, e non sera’ im periglio:
fura nel primo, e nel secondo rende. –
Sonetto 15
Poi che l’alma mia luce al ciel è gita,
ove ogni altra parer fa vile e obscura,
misero me infelice, che più dura
esser cosa a me può che stare in vita?
Perché seco là su non è salita
che in amarla qui pose ogni sua cura?
Aspra Morte, che sempre el meglior fura
su la più verde etate e più fiorita!
Gli occhi leggiadri e quel bel viso adorno,
le man di fresca rosa e bianca neve
or polve sun, che nulla cura o sente.
Così tutti alla terra fan ritorno:
però chi spera in cosa così breve
sempre, ma tardo spesso, se ne pente.
Sonetto 16
Ecco doppo la nebia el cel sereno
che invita li uccelletti andare a schera;
ecco la luce che resplende ove era
di caligine opaca dianci pieno.
Afligice mo, Invidia, aspro veneno
a cui t’alberga! abassa la tua altera
testa, ché chiunque alfine in Dio non spera,
presto ne veni ogni sua forza al meno!
Carità cun Iustizia e intera Fede,
che sempre furno a me fide compagne,
secur mi fan de chi fra via m’assale;
e mentre el cor, ch’è in me, da lor se vede
acompagnato andar, poco gli cale
di che altrui rida, o di che alcun si lagne.
Sonetto 17
Che fai, alma? che pensi? Ragion, desta
lo spirto, ché la voglia è già trascorsa
là dove ogni salute nostra è in forsa,
se la diffesa tua non sarà presta;
aluma el core; el penser vago aresta;
così fa’ el senso, che punto lo smorsa.
O scogli, o mar falace, ove era corsa
la debil barca mia in sì atra tempesta!
Da ora inanci fia più l’ochio interno
acorto; ogni desir men bono è spento;
la mente accesa al ben, presta e gagliarda.
E se puncto te offesi, o Patre eterno,
perdoname, sì come io me ne pento:
sai che da’ primi assalti om mal si guarda.
Sonetto 18
Lasso, che un’altra face el cor m’enfiamma,
che gli ardenti desiri ivi rinova
e l’antiquo pensier, nel qual si cova
el foco che me struge a dramma a dramma.
Felici anni nei quai chiamava mamma;
longi dal mal in cor l’alma si trova!
Pietà di me, Signor, tu che per prova
intendi qual è Amor, qual la sua fiamma!
E se talor con la mia donna parli,
per cui tuo fido amico andar si vede
privo del cor, de libertà e di pace,
piaciati noto apertamente farli
qual son gli affanni miei, qual è la fede,
quanto una mente altera a Dio dispiace.
Sonetto 19
Che bisogna che più nel mar si raspe,
fra tante frode e fra sì falsi inganni?
Parca, depone el fin a tanti affanni,
qual si sia quella che ‘l mio fato inaspe!
Da l’erculëo freto al fiume Idaspe
si sa como abia perso i mei verdi anni
in adorar colei, che nei mei danni
si gloria, a mie pregher’ sorda qual aspe.
Sino gli ucelli, i fiummi, i monti e campi
san como suspirando si distempre
il pecto stanco e como il cor avampi;
san como Amor e in che diverse tempre
senza pietà me incenda con doi lampi:
donque meglio è morir che languir sempre.
Sonetto 20
Se non spenge el mio fuoco el fiume eterno
ch’Amor versa da gli ochi, e il piancto molto
se ‘l desir cresce, e lo sperar m’è tolto,
e tuttavia m’afflige el caldo interno;
se ‘l Cel, se la Fortuna, se l’Averno
me son rebelli, e se nel cor mio stolto
ognor vomi del furor cieco e sciolto
qual giglio o rosa in prato al tempo verno;
se un sdegno altero, un’ira, un disprezare
altrui senza cagion è per mercede
del mio servire, el lamentar non vale.
Se non s’apreza una sincera fede,
Anima, dimmi, che debiam noi fare?
– Temer di pegio, et or languir nel male. –
Sonetto 21
Ïo temo che a lingua non consenta
el cor, che forse più ca neve agiaccia;
io temo non intrar in cotal traccia
che poi d’eservi entrato io me ne penta.
E se adesso ardi, da qui a puoco spenta
fia forse la tua fiamma, e chi te alaccia
che sa che di te soglier non gli piaccia,
e Amor reponga el stral che or aventa.
Chi sa che l’oro in piombo non se muti,
ch’i gagliardi tuoi preghi fervidi, anzi
sera sian più che pietra inerti e muti.
Però bisogna oprar miglior bilanzi,
ch’io so como ogni cosa se tramuti
e un fior disecca, che fiorì pur dianzi.
Sonetto 22
Qual uomo a cui el papavero con l’oppio
furato ha i sensi, per lo freddo troppo
tal io rimasi a lo amoroso intoppo,
agiacciando nel fuoco ond’io ne scoppio.
E quando ch’io vi vedo el mal radoppio,
e se io tento fugirmi di galoppo,
manco nel primo passo qual bue zoppo,
e a forza e mei co’ bei vostri ochi acoppio.
Quinci l’antica piaga se rinfresca,
ch’a noi advien che pur di novo incespi
là dove el sulevarmi più m’incresca.
Così a lacio dei biondi capei crespi
legato Amor terrami in la sua tresca,
fin che vechieza el nostro volto increspi.
Sonetto 23
Se Amor è alato come el è depincto,
perché in me fermo, lento, sede e giace?
Se gli è piciol fanciul, perché gli piace,
vincitor, stringer l’uom poi che l’ha vincto?
Se agli ochi porta un bianco velo avincto,
come sì certe manda le sue face,
per cui l’aflicto cor, che se disfece,
consumar vegio a morte e quasi extincto?
Se voler può, che fa del suo cavallo?
Se gli è signor, perché va scalzo e nudo?
Perché par dolce et è nel fin sì amaro?
Dimel, ti prego, o singular e raro
Francesco, onor de l’acidalio ludo
e primo e sol ne l’apollineo ballo.
Sonetto 24
Non sono in Aeti cervi o lepor tante,
né credo in Ibla ancor tant’ape siéno,
né tante erbe ebbe mai nel vago seno
Cerere, o fior sopra le chiome errante;
né tante selve son sul monte Atlante,
né mai de tante fronde arbor fu pieno,
di pesce el mar, di stel’el ciel sereno,
quante cure nel cor d’un cieco amante.
Quanti son li martiri, affanni e guai
che le misere piaghe versan sempre,
ben sa chi ‘l prova et io no ‘l dico invano.
Ma pur che Amor cun puoco dolce tempre
l’aspro venen, non se n’acorge om mai
fin che vechio non è col capo cano.
Sonetto 25
Qual stral, qual rapto vento non precorre
el veloce girar del ciel, che sgombra
quanto qua giù el cel riscalda e adombra,
om, dimi, che qui vòi tua speme porre?
Non sai che non se può dal mondo tôrre
l’esser fallace, che i cor ciechi ingombra?
Non sai che passarem qual fumo et umbra?
ch’ogni cosa terrestre a morte corre?
Ma poi che per tal lege a lei per forza
andar conviente, come va ogni rio
al mare o come cosa grave al centro,
oprar tu dèi che sol di te la scorza
seco ne porti, ma quel che v’è dentro
ritorni ad abitar là dove uscìo.
Sonetto 26
Se ‘l basso dir di mei suspir in rima,
i quali Amor ne la età mia aprile,
per segregarme dal vulgo più vile,
tra’ da parte del cor secreta et ima;
e se la nostra inculta e roza lima,
se ‘l mio cantar e ‘l mio debile stile
può meritar, ben che inornato e umile,
nome fra quei di che fa el mondo stima,
non vo’ mi guidi di Latona il fio
a’ fonti aganippei, o di sua insegna
Callïopè m’adorni, Euterpe o Clio.
Ché nulla Musa e d’ogn’altra più degna
in più fresche aque e in più onorato rio
mi bagna, e su nel ciel salir m’insegna.
Sonetto 27
Se benigno pianeta ha in noi vigore,
io credo ben che tutto quel fu infuso
nel spirto che nel corpo tuo fu chiuso,
Madonna, in questo mondo inferïore;
e credo ancor che ‘l nostro almo Factore
t’avria nel ciel tenuta per suo uso,
ma in terra ti mandò per far qua giuso
de sè fede, a me guerra, al mondo onore.
E credo ancora fermo, e ne son certo,
che ‘l spirto non si doglia, anzi si gloria
dil tuo bel velo che lo tien coperto;
et io viva farò la lor memoria,
se ‘l fonte dove aspiro mi fia aperto,
texendo del tuo nome eterna istoria.
Sonetto 28
Amor ben mille volte e cun mille arte,
come uom sagio che amico se dimostra,
temptato ha pormi ne la schera vostra,
che empieti de triunfi soi le carte;
ma la ragion di Lui m’era in disparte,
che la strata dil cel vera mi mostra:
così l’uno pensier cun l’altro giostra
e ‘l cor voria partir, né pur si parte.
Onde ancor né gioir nostra alma o trista
far può Fortuna, e furno in grande errore
gli ochi, se lo contrario a lor pareva.
Gelosia forse, che ‘l nostro Signore
seguir suol sempre, offerse cotal vista
al cor, che di Madonna alor temeva.
Sonetto 29
Tolto me ho pur davanti agli ochi el velo
per cui bon tempo non mirai ben dritto
e mi celò le carte ove è descritto
per qual strata ir se può presto nel celo.
E vedo ben che può mia fede in zelo
presto mutar quel ch’era già prescritto,
né mai perdon disopra fu desditto
a l’uom, pur che nel mal non cangi pelo.
Et io ne son exempio al popul tutto,
che, cun lor caminando, in breve spazio
al commun precipizio era condutto.
Nel fin cridai, del vanegiar già sazio;
– Perdon, – e di tal voce nacque un frutto
che l’alma trasse dallo eterno strazio.
Sonetto 30
Spirto, che reggi nel terrestre bosco
i nostri piè per questo cal selvagio,
guarda, quando serà fornito el viagio,
non dica el tuo Factor: – Non te conosco.
Io ti fei puro e bianco et or sei fosco
da caligine operto è ‘l vivo ragio;
pascer ti volse non di querci o fagio
ma d’ambrosia, e da un angue hai tolto el tòsco.
Sordido sei e maculato e cieco,
e più mi sdegno essendo tu nostra opra:
però parte nel ciel non avrai meco. –
Dunque mentre gli piace che ti copra
questo mio vel, deh fa che sempre seco
esser possàn nel regno là disopra.
Sonetto 31
Amore, a che bisogna più ti sforzi
trarmi cun gli altri a l’amoroso gioco?
Del vanegiar non men sazio che fioco
già son, né temo a servirti mi sforzi.
So come presto un fiato solo amorzi
d’ogni nostra fortuna un lieto foco,
come un piacer terren può durar puoco,
come ogni uom morte di sua spoglia scorzi.
E voi, che Amor seguite, date un stroppio
a’ lacci, alle catene, e l’amo e l’esca
rimanga senza preda exinanita.
E già di noi, che rimembrandol scoppio,
seria fata insanabil la ferita;
ma curata ho la piaga essendo fresca.
Sonetto 32
Se ellecto m’hai nel cel per tuo consorte,
Segnor, fa’ non mi tenga Amor più a bada,
né per me indarno aperta sia la strada
del cel e de Pluton rotte le porte.
Sai come sopra noi regna la Morte,
come el dì sette volte el iusto cada,
come un piacer terreno ai sensi agrada,
come io son fral, come ‘l nemico è forte.
Tu sai, Signor, che me su la tua stampa
formasti con mirabil magistero
e spirasti nel volto a me la vita;
donque d’amor, di fé el mio core avampa
e cercami, s’i’ vo fuor del sentero,
come un pastor la peccora smarita.
Sonetto 33
Poi che ‘l gran Re dil celo alla sua stampa,
l’alma creò nudata d’ogni vizio,
a’ nostri eterni danni un pors’inizio,
chi furar volse la febëa lampa.
Quinci Colei, da cui uom mai non scampa,
scese nel mondo e in alto precipizio
guida chi del gran primo benefizio
grata memoria non riscalda e avampa.
Costei miete ogni cosa, altro che ‘l nome,
e ‘l suo fatal, irreparabil colpo
deprecar non si può cun doni o censi.
Costei nel cor, ne gli ochi ora mi scolpo,
che apertamente mi dimostra come
obedir den, non commandar, i sensi.
Sonetto 34
Quando io penso talora quel ch’era anzi
l’alma al Principio suo fosse conforme,
ch’io non pensava l’onesto, lo enorme
doverse misurar cun par bilanzi;
e che quando l’uom crede el gli avanzi,
spesso el sol cade, e lui el gran sonno dorme;
né che secarsi e diventar può informe
sùbito un fior che verdegiava dianzi;
non me acorgeva, dico io, ahimè infelice,
esser qui in viaggio, esser qui posto in bando,
altrove esser la patria e la mia stanza.
E mentre e’ mie’ passati error pensando
men vo, fermo nel cor l’alte radice
de Carità, di Fede e di Speranza.
Sonetto 35
Chi va del mondo lustrando ogni parte
dove si colca e dove el sol più luce,
ritrovarà che a le terrestre luce
el ben col mal varia fortuna parte;
ma, lasso, che me offende in ogni parte,
né mai sopra di me vien chiara luce.
Verson lacrime sempre le mie luce,
e più quando altri possa o ‘l sol si parte;
né men quando al ritorno scuote l’umbra,
mentre el sudor distilla in qualche libro
del caldo a cui non trovo aure né umbra.
E quando ben mio stato penso e libro,
vorrei nel viaggio a Stigge esser in umbra,
essendo in fiamma uno exsicato libro.
Sonetto 36
Era la donna mia pensosa e mesta,
vòta di gioia, carca di dolore
e cun lei insieme ragionava Amore,
ch’e meza nocte a lacrimar me desta,
quando ignudo gli apparve senza vesta,
a guisa de un mesaggio, el nostro core
per farli scusa del commesso errore,
se ‘l promesso errore ancor s’aresta.
Ella a pietà non ch’e perdon si volse,
ché per farla più certa del suo stato
el cor scopersi: le sue fiame e i strale
ne l’umido suo grembo alor racolse,
e l’empio mio Segnor, che gli era a lato,
disse: – Volato è qui con le mie ale. –
Sonetto 37
Sì como del mondo umbra senza luce,
posta del mondo alle più inferne parte,
così riman tu, Italia: ecco si parte
el tuo vivo splendor ch’altrove or luce.
De’ soi bei raggi aviva le tue luce
mentre che a’ Galli e a noi suo lume parte,
che quando tutta vòlta in altre parte
serà, rimanga in te la impresa luce.
Alor me parerai como del cieco
regno di Dite stano i spirti bui,
ché si cognosce un ben quando è perduto.
E quando il danno tuo fie cognosciuto,
intenderai s’avia da pianger teco,
dicendo: – Io non son più quella ch’i’ fui. –
Sonetto 38
Per quel velo che porti agli ochi avinto
e per colei che si creò ne l’acque,
pel bel paese ove la Ninfa nacque
per cui fusti da te legato e vinto;
per la faretra di cui vai accinto,
pel strale a cui el mio cor per segno piacque,
per la vendetta de cui mal non tacque
di te, ch’indi ne fui poi quasi extinto,
Amor, deh move il stral, che in ocio siede,
accuto più che mai contro a costei
che ‘l tuo bel nome e la mia vita adumbra:
tal che o per prova al nostro mal dìe fede
o io no ‘l senta; o al fin, se iusto sei,
o me soleva o l’uno e l’altro ingombra.
Sonetto 39
Chiara alma, chiara luce, chiaro onore,
chiara virtù, chiari costumi alteri,
chiaro intellecto, chiari desideri,
chiara nova beltà, chiaro splendore,
chiaro albergo di senno e di valore,
chiari, canuti e leggiadri penseri,
chiaro spirito e chiari magisteri,
chiara rosa vermeglia, chiaro fiore,
chiara gemma più assai che un chiaro sole
quando apre l’anno verde, e rivi, colli
orna de fresche e palide vïole:
questi doni fe’ Giove, e a ti donolli
per monstrar che lui può quanto che vòle;
per farne fede poi qua giù mandolli.
Sonetto 40
Segnor, pensava in rime racontarve
ove prima ligato fu el mio core,
ove el mio pianto comenciò e ‘l dolore
e fece Amor di me quel che a lui parve,
quando Apollo, segnor nostro, m’apparve
e disse: – Or canta d’un chiaro splendore
ch’aluma l’universo, e lassa Amore
che l’uom sempre lusenga in false larve.
Io ben del suo bel nome cantarei,
ma se ne sdegna e, facto emulo a nui,
spesso ad altrui mi fa parer men chiaro. –
Così lui a me; et io risposi a lui:
– Volenteri, Signor, te ubedirei,
se donato m’avesti un stil più raro. –
Sonetto 41
Io me sento da quel che era en pria
mutato da una piaga alta e suave,
e vidi Amor del cor tôrme le chiave
e porle in man a la nemica mia.
E lei vid’io acceptarle altera e pia
e d’una servitù legera e grave
legarme, e da man manca in vie più prave
guidarme occultamente Gelosia.
Vidi andarne in exilio la Ragione,
e desiderii informi e voglie nove
rate a venir ad alogiar con meco.
E vidi da l’antica sua pregione
l’alma partir per abitare altrove,
e vidi inanti a lei per guida un cieco.
Sonetto 42
Pa.
Tremando, ardendo, el cor preso si truova.
Po.
Ov’è la neve, il laccio, il foco, il sole?
Pa.
I tuoi sguardi, i dolci acti e le parole.
Po.
Vòi taccia, chiuda gli ochi e non mi mova?
Pa.
Questo el mio mal non spinge, anze ‘l rinova.
Po.
Perchè?
Pa.
Perchè indi nascon tre parole:
virtù, stil, legiadria, unde non dole
fuoco, giaccio, catena, anzi gli giova.
Quel che lo lega, par la lingua snodi,
quel che l’agiaccia, de virtù lo incende,
l’arde in legiadre et amorose tempre.
Po.
Donque meglio me vedi, miri et odi?
Po.
Ben sai che sì, però che non me offende
agiacciando, stringendo, ardendo sempre.
Sonetto 43
Era ne la stagion quando el sol rende
a’ dui figli di Leda il bel offizio,
quando ch’io gionsi a l’umbra d’un ospizio
ove natura süe forze extende.
Ivi fra pedaglion, travacche e tende
gionse da l’alto ciel per artifizio
una Ninfa inmortal di tanto auspizio,
che solo il contemplar la vista offende.
Quivi era Apollo, Giove e gli altri dei
per rapir quella tutti, ma Cupido
cun Febo la legò per triunfarne.
Iove adirato el car salì per farne
vendetta, ma l’acorto amico e fido
s’ascose in vista, e se ‘n fugì cun lei.
Sonetto 44
Già quel che l’or’distingue, i mesi e gli anni,
i soi corser ne l’onde refrescava,
quando m’apparve, e so ch’io non sognava,
una Cerva che avea d’argento i vanni.
Doi cacciator ch’avean squarzati i panni
seguivan quella, e l’un sì glie monstrava
el mele, e l’altro so che la chiamava
dicendo: – Guarda costui non t’inganni! –
L’animaletto fermo in sé racolto
dubio, incerto stava, e pur al mele
che più la se acostasse a me alor parve.
Et io de ciò me ne affannava molto
che me acorgea del ricoperto fele,
e mentre me ne doglio ella disparve.
Sonetto 45
Misera Italia e tutta Europa intorno,
che ‘l tuo gran padre Papa iace e vende,
Marzoco a palla gioca e l’onge stende,
la Bissa è pregna et ha sul capo un corno.
Ferrando inferra e vendica el gran scorno,
San Marco bada, pesca e puoco prende,
la vincta Bissa ora San Georgio offende,
la Lupa a scampo veglia nocte e giorno.
Sega la grassa stracia in Mal avezi
e la Pantiera circondata crida,
femine e puti tien Romagna in pezi.
Da Aquile e Griffi al ciel ne va le strida,
e ‘l ciel non ode, e regna Mori egipzi,
Tarquin, Sardanapal, Crasso e Mida.
Sestina
Era ne la stagion che ‘l sommo Giove
Stende dal ciel la glorïosa mano,
Pingendo a la gran madre il vario volto,
E la riveste poi non d’ostro o d’oro,
Ma di purpurei fiori o di verd’erba,
Poi che ‘l novo anno a noi rimena il sole:
Quand’io vidi una donna emula al sole,
Fabricata per man de l’alto Giove,
Seder sotto un bel mirto sopra l’erba,
Ch’Amor et Honestà tenea per mano.
E se dritto mirai, due treccie d’oro
Facean più adorno e più leggiadro il volto:
Benché gli occhi perdean contro al suo volto,
Come perde ogni vista incontra al sole,
Ché in cigno bianco, in toro, in pioggia d’oro
Di novo convertir potrebbe Giove,
E Febo far con la zampogna in mano
Discalzo con gli armenti andar per l’erba.
Ma, lasso! ché nascoso era fra l’erba
Un fiero stral, che per ferirmi il volto
La donna prese di sua propria mano;
E s’io non mi difesi da quel sole,
Vergogna non mi fu, poscia che Giove
In cielo è tutto pien di strali d’oro.
Onde pria verde troverassi l’oro,
E primavera senza ‘ fiori e l’erba,
E sarà mesto ne l’abisso Giove,
Ch’io non porti scolpito il divin volto
Dentro al mio core, e l’uno e l’altro sole,
E quella a me tanto nemica mano.
O dolce, o santa, o leggiadretta mano,
In cui si vede insieme avorio e oro!
O humana dea, o bel terrestre sole,
Il qual non per nutrir ne i campi l’erba,
Ma per mostrar sé stesso in simil volto
Mandò fra noi qua giù l’eccelso Giove!
Ma prego Giove che non mieta in erba
Quel volto e quella man che lo stral d’oro
In noi mandò, ché ‘n cielo è assai d’un sole.
Capitolo
Né più né men como a Natura piace
Porto la vita, e tanto più quïeta
Quanto ragion con tutti i sensi ha pace.
Cosa ch’io cerchi aver non mi si vieta,
Però che anch’io non seguo voglia alcuna
Che exceda de’ suoi termini la meta.
Chi ha l’acque e i fructi, a forza non digiuna;
Ogni altra fame, ogni sete è mendosa,
Quando sopra il bisogno ci importuna.
Chi troppo vòl, la magior parte è ascosa;
E chi molto solerte cerca e brama,
Con l’animo e col corpo mai non posa.
Un, spesso, una che l’odia affecta e ama,
E in van s’affligge e stenta; un, puoi, negletto,
Serve e s’affanna per salire in fama.
S’el non consegue el suo bramato effecto,
Biastema i celi, e il miser non s’avede
Che colpa non ha il cel, ma suo è il diffecto.
Quel che più in là pensa di porre el piede
Che la sua gamba el porti, o ver ch’el cade,
O con disavvantaggio indietro riede.
Erte a salir al cel sono le strade:
Chi vole ir sempre ove el pensiero el porta,
Se stesso danna a gran calamitade.
Nessun perfectamente si conforta
Viver quieto in suo stato, se non quello
Che la speme nascente ha presto morta.
Chi vuol parer più nobile o più bello
Che Natura el produchi, ohimé, el s’inganna,
Ché ‘l metal solo si rifà al martello.
Talor si trova sotto una capanna
Magior felicità che in le gran corte,
Dove, per grado aver, tanto s’affanna.
A tutti le bilancie adegua Morte;
Ma chi è debito poco, presto rende
E in longo carcer non lo serron porte.
Meglio da le percosse si diffende
Chi ha un sol nimico, che quel che n’ha molti;
Se ‘l grande serve ad uno, a mille offende.
Contra al pover non son l’invidi vòlti;
Mancan l’insidie, tace el detractore,
Né sue calumnie mai convien ch’ascolti.
Non teme a mensa om povero el censore,
O in publico o in privato che gli appona,
Né mai abito lascia con rubore.
Più dannata è una gemma in la corona
D’un re, se è mal legata in quel fino oro,
Che la vil toga sopra umil persona.
Di foglie e d’alga a un positivo toro
Con men pensier si dorme, che a i gran lecti
Su ricchi strati di sutil lavoro.
Se fusser discoperti tutti i tecti,
Se vederian, qual per camini el fumo,
I suspir’ che con voce escon de’ pecti.
Ma a me ritorno, e questo dir prosumo:
Che in questo mio tugurio ho il secul tutto,
Benché oltra il viver non m’avanzi un numo.
Dove el fonte non sorge, è l’aquedutto;
Dove non nascon cedri o palme, è il sorbo,
Che, quando piace a me, mi è dolce frutto.
Se non ho il pappagallo, ho in cambio il corbo;
Se farmaci non ho, cinamo o pepe
(Quanto men medicine, è manco morbo),
Ho l’aglio almanco e le spogliose cepe,
Fragole, aspargi, ed èvi el spineo cardo,
E nespoli inestati entro le sepe,
Caperi, fongi, erbette e il spico nardo,
Fior’ varii e rose, non che a primavera,
Ma l’estate, l’autunno e al verno tardo.
S’io non ho mare o laghi, ho la peschera,
E s’ella non ha tunni, orate o rombi,
Ha d’umil pesci una infinita schiera.
Ho le reti coi subri e al fondo i piombi,
Che quel ch’io voglio portono a la riva;
De ucelli ho puoi galline, oche e colombi,
E benché queste cose tutte io scriva,
Non me ne acibo sempre, ché Natura
Non vuol superfluo: a lei basta ch’io viva.
Usar si vòle il suo stesso a misura:
Attaccati a le trabe spesso trova
I racemi passati l’ua matura.
Fannomi in casa i donnellini a prova,
E le galline mi mostran col canto
Quando io debbo levar del nido l’ova.
Ma ben ch’io dichi questo, io non mi vanto,
Ché exaltar non mi può cosa mortale,
Perché el fin de i dilecti è inizio al pianto.
Officii, onori, pompe, veste e gale
Altro non son che uno illusorio sogno,
Che, alor che più dilecta, nulla vale.
Quando uno ha per camino el suo bisogno,
Ogni altra cosa puoi gli è inutil soma:
Già lo provai, e ancor me ne vergogno.
Questo giudicio sta in la bianca chioma,
Che al gionger suo ne mostra ognor più certo
Che ogni cosa che nasce, el tempo doma.
E quanto un più di questa vita è experto,
Cognosce manifesto che più gode
Un libero voler dentro el deserto
Che in le cità, dove l’un l’altro rode.
Note
Fonte
Pico della Mirandola, Poesie volgari, Roma : Biblioteca Italiana, 2003
Giovanni Pico dei conti della Mirandola e della Concordia, conosciuto semplicemente come Pico della Mirandola, anche se desiderava farsi chiamare Conte della Concordia (Mirandola, 24 febbraio 1463 – Firenze, 17 novembre 1494), è stato un umanista e filosofo italiano. È l’esponente più conosciuto della dinastia dei Pico signori di Mirandola.
Opere di Giovanni Pico della Mirandola
Carmina (Carmi).
Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae (Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche) .
De ente et uno (L’essere e l’uno).
De omnibus rebus et de quibusdam aliis (Tutte le cose e alcune altre).
Disputationes adversus astrologiam divinatricem (Dispute contro l’astrologia divinatrice).
Heptalus (L’Ettalo).
Oratio de hominis dignitate (Discorso sulla dignità dell’uomo).
Testi pubblicati a scopo di studio e di ricerca – Uso non commerciale
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