Antonio De Lisa- Istituzioni di Diritto islamico

 

Le fonti del diritto islamico (fiqh: comprendere; capire) si identificano con quelle della teologia islamica. Il termine Shariʿah (dal verbo shara´a) connette l’idea del “spiritual law” ed il “system of divine law”, recuperabile nel Corano.

Dopo la morte di Maometto sorsero dissensi politici e teologici anche violenti sul modo di interpretare il Corano e di provvedere allo stato musulmano. Nel corso di lotte durate fino al IX secolo, il movimento islamico si divise in varie sette, le principali delle quali sono ancora le seguenti due: i sunniti, così chiamati perché si proclamano seguaci della sunna, sono i più numerosi; e gli sciiti, che si oppongono ai sunniti per antichi dissensi sulla successione del Profeta e, in tempi più recenti, anche per ragioni ideologiche.

A queste principali sette (che subirono numerosi scismi interni), ne vanno aggiunte parecchie altre minori. Pur partendo da un nucleo comune, tutte hanno elaborato un loro fiqh, cioè un loro sistema teologico-giuridico. Limitiamoci alle scuole dei sunniti.

Le fonti

Uṣūl al-fiqh – أصول الفقه

Le fonti teologico-giuridiche (letteralmente origini/fondamenti della giurisprudenza islamica) sono quattro (i primi fondamenti attivi; i secondi passivi):

1. Il Corano

2. la tradizione sacra (sunnah)

3. l´opinione concorde (ijmā)

4. l´interpretazione analogica (qiyās)

A queste si aggiungono alcune fonti non canoniche, usate però di fatto nella vita giuridica degli stati islamici.

1. Il Corano

Alcune religioni posseggono le loro tradizioni sacre raccolte in un “libro”: gli ebrei nella Torah (il Pentateuco), i cristiani nel Vangelo, gli indù nei Veda, i taoisti nel Tao Te Ching di Lao Tzu, i musulmani nel Corano. Il Corano (Quran: “recitare ad alta voce“ ;”la recitazione”) costituisce il testo della rivelazione coranica (nella versione originale in lingua araba) ed è immutabile nel corso dei secoli.

Come fonte giuridica, il Corano offre poco materiale.  Dei 6237 versetti che lo compongono, circa il dieci per cento si riferisce a temi giuridici in senso lato. Maometto aveva risolto casi concreti o espresso opinioni che potevano contribuire a colmare in modo autentico le lacune del Corano. Una “tradizione” deve essere un racconto tramandato da una catena ininterrotta di narratori attendibili e avente per oggetto un comportamento di Maometto, il cui agire è ispirato da Dio. Come è facile immaginare, nel mondo islamico non esiste un’opinione unitaria e concorde su quali aḥadīth siano da ritenere attendibili: una collezione di aḥadīth del IX secolo ne elenca 300.000, di cui soltanto 8000 ritenuti autentici. Di questo parleremo più avanti.

A surrogare il Corano, acquistò prestissimo grande significato quello che Maometto faceva, diceva, oppure non faceva o non diceva quando interrogato su un quesito di fede, di opere o di liturgia. Maometto, ritenuto il migliore interprete della volontà divina (perché ineffabilmente ispirato), diveniva così il modello di riferimento dei suoi contemporanei e delle generazioni future di musulmani. La tradizione narrativa (cioè orale) riferita a Maometto e, in seguito, anche ai suoi Compagni (Ṣaḥāba) o a qualcuno dei Seguaci (Tābiʿūn) – costituenti cioè i più autorevoli musulmani delle generazioni successive a quella del Profeta e dei Compagni – acquistava pertanto valore di legge, sempre che mancasse un esplicito passaggio coranico ad ordinare o vietare qualcosa.

Nel IX secolo vennero preparate raccolte di aḥadīth che riferivano i comportamenti, i detti e anche i silenzi del Profeta, da cui si potevano desumere regole di comportamento non epresse dal Corano. Corano e sunna, interpretati anche secondo tecniche minuziose, lasciavano però ancora qualche problema insoluto, né i pareri degli ulema avevano forza sufficiente ad integrare la parola di Dio. Tuttavia una tradizione della sunnah afferma che, se la comunità dei giuristi- teologi dà il suo consenso generale ad una teoria, questa non può essere errata. Questo consenso (ijma) non è facile da definire. Di fatto, l’ijma è intesa come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente grande e il loro parere chiaramente formulato.

2. La Sunnah – La tradizione sacra

سنة

Nel Corano si legge : “Non troverete nessun cambiamento nella sunnah [la linea di condotta] di Allah!” (Corano 33,62).

Se la Sunnah indica “la Pratica”, ” la Linea di Condotta“ del buon musulmano,  ḥadīth esprime il concetto di “tradizione” (trasmissione orale della notizia di un detto, di un atto, di un fatto). Nell´uso corrente queste due parole sono adoperate per indicare la Linea di condotta islamica del profeta Maometto, che è stata trasmessa di generazione in generazione, oralmente, mediante una catena di persone degne di fede il cui primo anello è un testimone , appartenente alla cerchia dei seguaci del Profeta.

La Sunnah, si riferisce in particolare a quelle pratiche del Profeta che sono state parte integrante della sua Missione Profetica e che sono state seguite dai suoi compagni.

La Sunnah e l’identità islamica – La parola Sunnah fa riferimento alla pratica di vita del Profeta, dove ci sono esempi da imitare e modelli di comportamento da mettere in atto, per chi vuole vivere l´Islàm. Il nome di chi possiede l´identità islamica è quello di muslim (musulmano ovvero sottomesso a Dio ). Musulmano è – dunque- chi sottomesso ad Allàh, crede ed esercita l’Islàm fondando la propria vita su cinque regole essenziali denominate “pilastri”.

I fondamenti dell´Islàm . Le cinque regole essenziali (pilastri) del Codice di vita islamico sono :

– La Testimonianza di Fede

– La Preghiera

– L´Elemosina

– Il Digiuno

– Il Pellegrinaggio

Questi pilastri dell´Islam costituiscono gli atti di culto considerati fondamentali per la religiosità musulmana e sono recuperabili essenzialmente nel Corano, mentre le regole dettagliate per la loro attuazione pratica si trovano nell´Insegnamento orale del Profeta e nella sua Sunnah.

Una Sunnah, cioè una pratica islamica, viene trasmessa attraverso l´osservazione, l´imitazione e attraverso l´insegnamento.

Ḥadīth 

حديث

Ḥadīth (حديث), plurale Aḥadīth, fa riferimento a tradizione, cioè trasmissione orale di un detto, di una notizia, di un atto, di un fatto. Questa parola viene utilizzata per indicare la linea di condotta del profeta Maometto, trasmessa di generazione in generazione, oralmente, mediante una catena di persone degne di fede il cui primo anello è un testimone appartenente alla cerchia dei compagni o seguaci del profeta. Questi,  avendo visto o udito direttamente,  portano a conoscenza degli altri   insegnamenti derivati dall’esempio dell’inviato di Dio. Una “tradizione“ (ḥadīth), dunque, deve essere un racconto tramandato da una catena ininterrotta di narratori attendibili e avente per oggetto un comportamento di Maometto, il cui agire era stato ispirato da Dio.

La questione è sapere quali aḥadīth siano da ritenere attendibili: una collezione di hadith del IX secolo ne elenca circa 300.000, di cui soltanto 8000 ritenuti autentici.

Nel IX secolo vennero preparate raccolte di aḥadīth ,che riferivano i comportamenti ( espressi o inespressi) del Profeta, da cui si potevano desumere regole di comportamento non estrinsecate dal Corano. Il loro insieme costituisce la tradizione sacra o sunna , che viene seguita dai musulmani sunniti.

Dopo la scomparsa del Profeta, vennero fatte delle Raccolte di aḥadīth ed ogni testimonianza era preceduta dalla Catena dei Trasmettitori (Isnad=sostegno ); ad esempio, il Tale ha raccontato che il Tal altro raccontò di aver udito Omar dire: L´Inviato di Allah disse :”…”.

I compilatori delle raccolte riportavano anche notizie sul tenore letterale dei testi.

Libri Canonici di ḥadīth – La necessità di conoscere la posizione di Maometto si sostanziò nella raccolta orale , ma anche scritta delle testimonianze. Le collezioni scritte di testimonianze avevano lo scopo di raccogliere materiale utile per la risoluzione di questioni di diritto e di dottrina religiosa e dovevano possedere requisiti di assoluta garanzia di autenticità

I Sei libri (al-kutub al-sitta) – In genere si indicano Sei libri (al-kutub al-sitta) che conterrebbero le tradizioni giuridico-teologiche più affidabili e importanti. A volte se ne indicano 14 o più.

Fra i Sei libri si indicano per eccellenza:

– il Ṣaḥīḥ (Il [libro] sano) di Bukhārī e l’omonima opera di Muslim b. al-Ḥajjāj.

Gli altri cinque sono;

– i Sunan di Ibn Māja,

– di al-Nasā’ī,

– di al-Tirmidhī;

– e di Abū Dāwūd al-Sījistānī.

Questi libri di aḥadīth sono il frutto dell´iniziativa personale dei ricercatori e compilatori delle raccolte. Ogni libro è stato sottoposto, prima di essere accettato come fonte autentica di notizie relative agli insegnamenti del Profeta, ad un accurato esame critico da parte della comunità islamica.

Criteri per l´accettazione di un ḥadīth – Al fine di verificare l´autenticità delle tradizioni, si è formata nel tempo una categoria di studiosi ha dato vita alla scienza religiosa del ḥadīth (ailmu_l_hadith).

Gli studiosi del Hadith (detti Muhaddithin) hanno adottato il seguente metodo di indagine :

Per prima cosa essi operano ricerche per accertare se la catena di trasmissione (isnad) porta fino ad una persona presente al fatto;

accertata l´esistenza di una catena di trasmissioni valida, essi esaminano l´attendibilità di ciascuno dei trasmettitori, analizzando vita, carattere, interessi, attività, affidabilità morale e fisica.

Migliaia di Muhaddithin hanno dedicato la vita alla ricerca di ogni minimo dettaglio sulle vite dei trasmettitori delle tradizioni sul Profeta. Sulla base di simili ricerche si conosce la biografia completa di circa 100.000 persone che furono coinvolte nelle tradizioni.

Dopo aver accertato l´attendibilità e la veridicità del trasmettitore l’analisi viene estesa alla credibilità del detto o del fatto.

Criteri per l´accettazione di un ḥadīth – Il criterio per scartare una tradizione per difetto di credibilità era il seguente:

1- il fatto o il detto è contrario agli insegnamenti del Corano e della Sunnah ed è in contraddizione con altri aḥadīth

2- la tradizione attribuisce al Profeta delle assurdità

3- il fatto o il detto sono contrari a fatti provati

4- oppure si contraddicono internamente

5- la tradizione riporta un evento che, se fosse realmente accaduto, centinaia di persone lo avrebbero osservato, mentre solo una persona ne ha riferito

6- la tradizione contiene parole sconvenienti o addirittura volgari; o profezie di eventi futuri con date specifiche; o minaccia castighi tremendi per piccole mancanze; o promette enormi ricompense per adempimenti di marginale importanza.

Questi canoni per vagliare la credibilità della tradizione sono stati desunti da esempi forniti dai Compagni del Profeta.

Classificazione degli aḥadīth –

Gli aḥadīth sono stati divisi in 3 gruppi principali:

1) Sahih: cioé degno di fiducia e attendibile (autentico);

2) Hasan: buono;

3) Da’if: debole.

Ci sono, inoltre, degli aḥadīth il carattere è incerto o addirittura Maudu` ovvero “fabbricati” e quindi falsi .

Le tradizioni sahih– Tutti gli aḥadīth presentati da Bukhari e da Muslim hanno il carattere Sahih.

Sono altresì sahih tutti gli altri aḥadīth che, pur non facendo parte delle raccolte di Bukhari e di Muslim, hanno superato positivamente l´esame a cui sono stati sottoposti dai Muhaddithin.

Le tradizioni hasan– Le tradizioni Hasan sono quelle la cui fonte è nota e i cui trasmettitori sono conosciuti per la loro affidabilità e la loro precisione; tutte queste tradizioni sono accettate dalla maggior parte degli insegnanti, dei dottori della legge islamica e dei giuristi. Le tradizioni Hasan sono state riconosciute come base valida per decisioni legali nella giurisprudenza islamica.

Le tradizioni da’if– Le tradizioni Da’if (deboli) non possono essere, invece, poste a fondamento di decisioni giurisprudenziali e di pareri legali,anche se possono essere citate. Esistono diversi gradi di debolezza che vanno dalla mancanza di un anello nella catena delle trasmissioni alla completa invenzione del detto o del fatto attribuito, in tal caso falsamente, al Profeta .

Esempi di argomenti trattati dal ḥadīth – Il ḥadīth tratta tutti gli argomenti relativi a tutti gli aspetti della vita.

Il Bukhari divise la sua opera in 97 libri.

–3 libri riguardano: l´Inizio della Rivelazione, la fede e la Conoscenza

–30 libri trattano: l´Adorazione Islamica (Salah), l´Imposta Coranica (Zakat), la Visita alla Mecca (Hajj) , il Digiuno (Saum)

–22 libri trattano: Affari commerciali, Amministrazione Pubblica, Lavoro, Giustizia.

–3 Libri trattano: il Jihad ( lo sforzo – la lotta per la causa di Allah), i Dhimmi (sudditi non musulmani dell´Impero Islamico)

–1 libro tratta della Creazione.

–4 Libri trattano dei Profeti e le buone qualità dei Compagni del Profeta (pbsl)

–1 libro tratta dell´ Attività del Profeta(pbsl) a Medina.

–2 libri trattano dei Commenti relativi ai passi del Corano.

–3 libri trattano: del Matrimonio, del Divorzio, del Mantenimento della Famiglia

–26 libri trattano temi diversi: cibo, bevande, abiti, buone maniere

–Il 96° libro del Sahih di Bukhari sottolinea l´importanza di obbedire al Corano e di attenersi agli esempi del Profeta come ci vengono insegnati nella Sunnah.

–Il 97° libro tratta, infine, nel Tawid (Tawid è il principio dell´Unicità Unità e Unipersonalità di Allah).

3. Ijmā: l´opinione concorde della comunità dei giuristi –teologi 

Corano e Sunnah, interpretati anche secondo tecniche minuziose, lasciano però ancora qualche problema insoluto, né i pareri degli ulema possono forza sufficiente ad integrare la parola di Dio.

In proposito una tradizione della Sunnah afferma che, se la comunità dei giuristi- teologi dà il suo consenso generale ad una teoria, questa non può essere errata. Questo consenso (ijmā – إجماع ) è interpretato come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente grande e il loro parere chiaramente formulato.

4. Qiyās: l´interpretazione analogica.

L´analogia costituisce un apporto esterno all´Islam, che si introduce nell’Islam quando questo viene a contatto con ordinamenti di cultura irano-ellenistica. E’ a questo punto che elementi del pensiero greco vennero inglobati nel ragionamento giuiridico-teologico dell’islam, così come norme giustinianee ed ebraiche vennero inglobate nel suo diritto. Poi, alla fine della dinastia abbàside nel 935 d.C., i regionalismi si fecero più forti; ma il diritto sacro, il fikh, si era ormai pietrificato. Essa penetrò nel pensiero islamico attraverso le conquiste dei paesi di cultura irano-ellenistica e fiorì sotto la dinastia degli Abbàsidi (nel 700-800 d.C.). E’ sotto questa dinastia che il diritto islamico assunse la sua forma odierna e in essa si cristallizò. Con il passaggio della capitale imperiale da Damasco a Bagdad, il travaso culturale tra conquistatori e conquistati si attuò decisamente.

Questa fonte è specificamente giuridica, nel senso che l’uso dell’analogia – strumento indiscusso in teologia – fu oggetto di gravi controversie nella soluzione di casi giudiziari, perché si riteneva empio usare la ragione umana per colmare un’apparente lacuna divina.

Ad es.: il riconoscimento alla donna, vittima di un reato, di un indennizzo pari alla metà di quello che spetta ad un uomo, perché all´uomo spetta un´eredità doppia che alla donna.

Le fonti non canoniche

L´estensione delle conquiste islamiche e il perdurare di grandi stati islamici fino al secolo XIX rese necessario l’integrazione del sistema classico delle fonti con altri strumenti, legati a una più sviluppata attività legislativa e giudiziaria, ovvero a particolari tradizioni locali. Va ricordato, però, che le fonti non canoniche non fanno parte delle fonti classiche islamiche.

La consuetudine (urf)

Bisogna distinguere i paesi islamici retti da un diritto consuetudinario non islamico (come l’Indonesia) e i paesi di diritto islamico in cui la consuetudine (urf) sembra essere esclusa dalle fonti del diritto. L‘urf, tuttavia, ha una sua esistenza non ufficiale, legata a situazioni anteriori all’islamizzazione di un certo territorio, e contribuisce a integrare il diritto islamico. Una consuetudine locale, ad esempio, può stabilire il termine entro cui deve essere pagata la dote.

Le decisioni giudiziarie

Anch’esse tendono ad integrare questo diritto: i malikiti seguivano le pronunce di Medina, gli hanbaliti e hanafiti quelle irachene e gli shafiiti quelle della Mecca. Infatti la fuga di Maometto a Medina divide il suo insegnamento in due parti.

Il decreto del sovrano (qanun)

L’assestamento dell’impero islamico e, in seguito, la formazione di parlamenti generarono come ultima fonte il decreto del sovrano del singolo paese, introducendo così una duplice giurisdizione: mentre il qadi, giudice monocratico religioso, continuò ad applicare la legge sacra, i tribunali laici applicarono il qanun.

Il pubblico interesse (maslaba)

Sempre in tempi recenti, si fece ricorso al concetto di pubblico interesse, inteso in senso lato. In Tunisia, ad esempio, si introdusse un limite alla poligamia sottolineando che un uomo non può comportarsi in modo eguale verso tutte le mogli e che questa ineguaglianza di trattamento (soprattutto economico), oltre a essere contraria al dettame coranico, è contraria anche al pubblico interesse.

La legge islamica

Shariʿah e Fiqh

La sharia e il fiqh si pongono nel rapporto generale – particolare. Anche il giurista in senso occidentale non esiste per il diritto islamico, che nella figura del “sapiente” (l’alim ; pl. Ulama) riconosce il teologo-giurista esperto di fiqh, che si esprime attraverso pronunzie (fatwa) . Ne consegue che , negli stati islamici, le facoltà di giurisprudenza divergono da quelle occidentali.

Shariʿah

 شريعة.

Shariʿah ( شريعة.) letteralmente significa “via”, “cammino verso la fonte” e nel Corano si trova la radice del termine utilizzato per esprimere il fatto che nel corso della storia ogni religione ha ricevuto la sua “via”: A ciascuno abbiamo dato una via ed una prassi (un metodo, una metodologia).

La sharīʿa  può essere interpretata sotto due sfere, una più metafisica e un’altra pragmatica. Nel significato metafisico, la sharīʿah è la Legge di Dio e, in quanto tale, rimane sconosciuta agli uomini. In chiave pragmatica, il fiqh, la scienza giurisprudenziale islamica interpretata secondo la legge sacra, rappresenta lo sforzo concreto esercitato per identificare la Legge di Dio; in tal senso, la letteratura legale prodotta dai giuristi (faqīh, plurale: fuqahāʾ) costituisce opera di fiqh, non di sharīʿa. Va sottolineato il tentativo, praticato in alcuni paesi a maggioranza islamica (Iran e Arabia Saudita), di intendere la shari’a come codice di leggi non comportamentali o consuetudinarie, ma come norme di diritto positivo. La stessa shari’a distingue peraltro le norme riguardanti il culto e gli obblighi rituali da quelle di natura più squisitamente giuridica.

Fiqh – Giurisprudenza coranica

Il secondo termine da definire è quello di fiqh. Letteralmente la parola vuol dire “comprensione profonda”. Il lavoro di elaborazione del diritto si fa a partire da una lettura normativa delle fonti al fine di estrarne le prescrizioni giuridiche e di permetterne la classificazione. Quindi, fiqh indica il diritto islamico nel suo complesso. Fiqh (da cui deriva il nome dei giurisperiti: fuqahāʾ) può essere tradotto con il termine di giurisprudenza coranica.

Lo storico Ibn Khaldun definisce il fiqh come la “conoscenza dei comandamenti di Dio che concernono le azioni, qualificate come:

– wājib (obbligatorie),

– ḥarām (vietate),

– mandūb (raccomandate),

– makrūḥ (disapprovate)

– mubāḥ (indifferenti)

Il giurista in senso occidentale non esiste per il diritto islamico, la figura dell’alim (pl. Ulama) identifica il teologo-giurista esperto di fiqh.

Il fiqh si applica a due campi essenziali:

– il campo del culto e della pratica (al-ibadat)

– il campo degli affari sociali in senso ampio (al-mu’amalat).

E’ fondamentale capire che, se questi due campi si fondano entrambi sulle fonti scritte, è stata stabilita una metodologia diversa per ciascuno di loro: nel campo del culto le prescrizioni sono molto spesso chiare e precise ed il musulmano deve attenersi alla lettera ai testi. In questo campo che riguarda la preghiera, la zakah, il digiuno ed il pellegrinaggio, gli è consentito fare solo quello che si basa sull’autorità di un testo.

Avviene tutt’altra cosa nella sfera degli affari sociali, la cui metodologia è improntata ad una logica diversa: cioè, negli affari sociali il campo del possibile è aperto, tanto che non si ha un testo che proibisce di agire in un dato modo. Contrariamente al culto, il principio fondamentale qui è il permesso. Potremmo dire che tutto è permesso salvo quello che è esplicitamente proibito.

Le scuole sunnite di diritto islamico

Nel corso dell’assestamento del diritto islamico sotto la dinastia abbàside nell’VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le estensioni analogiche del diritto sacro venissero incanalate in un’unica direzione: nacquero così quattro scuole ortodosse e numerose scuole eretiche. Ancor oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole o riti, spesso presenti in varia proporzione nella medesima nazione. Il diritto islamico non è quindi unitario.

Una scuola giuridico-religiosa islamica in arabo viene definita madhhab. Le quattro scuole islamiche ortodosse portano il nome del loro fondatore. Durante i primi secoli di diffusione dell’islam, in particolare nell’VIII secolo, i giurisperiti (faqih, plurale fuqaha’) si riunirono in scuole, inizialmente identificate ciascuna con un luogo preciso. I principali centri erano Medina e Mecca nella Penisola araba e le città irachene di Kufa e Bassora.

Originariamente le scuole erano costituite attorno a un nucleo di sapienti (ʿulema, plurale di ʿalimfuqaha’ e quḍat, plurale di qaḍi), ma la loro influenza si diffuse gradualmente anche tra le popolazioni locali, che si rivolgevano a loro per dirimere le questioni di interesse quotidiano. Le scuole differivano tra loro sia per la regolamentazione dei singoli casi della vita dei credenti che per il peso assegnato alle fonti del diritto.

Tali divergenze tuttavia vengono percepite non come differenze di principio ma come diverse possibilità di applicare uno stesso principio. Secondo la pratica corrente infatti un credente può seguire l’una o l’altra scuola a seconda delle necessità. A favorire questo meccanismo è il concetto di facilitazione (cfr. Corano 2:185): per ogni precetto un modo più perfetto di rispettarlo convive quasi sempre con un modo più semplice e meno oneroso, pur nell’ambito della liceità e purché non vi sia intenzione di aggirarlo. Nell’islam sunnita quelle principali sono quattro, tutt’ora in vigore.

1. Scuola hanafita

ﺣﻨﻔﻴـة      ḥanafiyya

La scuola hanafita (diffusa in Turchia, Egitto, India, Pakistan, e nell’ex URSS) è la più liberale, perché tende a sottolineare il carattere formale del comportamento del fedele ma, una volta rispettata la forma, ammette che con le finzioni si possano ammorbidire certe proibizioni del Corano.

Questa scuola  fu storicamente il primo dei quattro madhhab  ad essere costituito verso la fine dell’VIII secolo d.C., come frutto dell’elaborazione dottrinale del suo fondatore, Abū Ḥanīfa al-Nuʿmān b. Thābit, 699-767, ( ﺍﺑﻮ ﺣﻨﻴﻔـة ﺍﻟﻨﻌﻤﺎﻥ ﺍﺑﻦ ﺛﺎﺑﺖ‎) definito “la guida suprema” (al-imam al-aʿẓam) e dei suoi allievi Abū Yūsuf (m. 181/798) e Muḥammad al-Shaybānī (m. 209/805).

In particolare, quest’ultimo si segnala come colui che dette il via alla codificazione e alla sistematizzazione delle norme disciplinanti i rapporti con i harbī, gli abitanti non musulmani della Dar al-Harb. I suoi seguaci erano annoverati tra la “gente dell’opinione” (aṣḥab al-ra’y), per il peso che attribuivano al ragionamento analogico. Inoltre introdussero il principio dell’approvazione (istiḥsan) da parte del singolo dottore.

L’opera attribuita ad al-Shaybānī è immensa ed è disponibile pressoché nella sua interezza, anche se sono stati avanzati forti dubbi sul fatto che egli abbia effettivamente scritto tutti i titoli attribuitigli, posto che i suoi maestri, Abū Hanīfa e Abū Yūsuf, hanno lasciato una quantità ridotta di scritti sul fiqh (sono numerosi i testi attribuiti ad Abū Yūsuf, ma pochi sono giunti fino ad oggi). Va detto, infatti, che il fiqh dei primordi si basava essenzialmente sulla trasmissione orale della conoscenza e che, con tutta probabilità, al-Shaybānī rappresenta una di quelle figure che hanno segnato il passaggio alla forma scritta.

Le caratteristiche principali di al-Shaybānī sono il rigore e la sistematicità nel metodo. Egli cerca in ogni circostanza un fondamento tradizionistico per giustificare le diverse teorie di diritto. Anche se – va detto – una delle critiche che più spesso gli è stata mossa è di non aver fatto riferimento esclusivo ai ḥadīṯ del Profeta, favorendo quelli dei Compagni (Sahāba).

Un’importante opera composta da al-Shaybānī, dal titolo Kitāb al-aṣl (ma nota anche come al-Mabsūṭ) costituisce uno dei punti di partenza di tutta la dottrina ḥanafita, tanto che molti dotti ḥanafiti ne ritenevano indispensabile la conoscenza a memoria, finalizzata all’ottenimento della qualifica di mujtahid. Tra le diverse opere del giurista iracheno, si segnalano, più specificamente, per le relazioni di guerra e pace, il Kitāb al-siyar al-kabīr e il Kitāb al-siyar al-saghīr. A fianco al voluminoso corpus di al-Shaybānī, va segnalato il Kitāb al-kharāfi di Abū Yūsuf, opera di carattere fiscale, scritta su commissione del califfo abbaside Hārūn al-Rashīd (766-809).

Un altro autore del periodo antico che è spesso citato dalle opere posteriori è al-Ṭaḥāwī, giurista egiziano morto nel 933. La tradizione gli attribuisce due importanti commentari, il Kitāb al-jāmiʿ al-kabīr e il Kitāb al-jāmiʿ al-ṣaghīr; vanno inoltre segnalati il testo Ikhtilāf al-fuqahāʾ e un compendio (muḫtaṣar) di diritto hanafita, ma soprattutto i formulari legali (shurūṭ) sulle transazioni, il cui genere letterario ha avuto uno sviluppo decisivo proprio grazie ad al-Ṭaḥāwī.

Fu il madhhab prevalente nell’Impero Ottomano e attualmente è il più diffuso all’interno del mondo islamico (abbracciato da circa il 30% dei musulmani), particolarmente seguito in Turchia, in Giordania, nelle regioni a est dell’Iran, Afghanistan, Pakistan, India, Bangladesh.

2. Scuola malikita

La scuola malikita (diffusa nel Maghreb) è rigorosa. I Malikiti (detti anche malichiti) sono quei musulmani sunniti che seguono il madhhab  fondato sulla scia dell’insegnamento di Mālik ibn Anas di Medina (m. 796).

Tale scuola tende a considerare fondamentale nelle indicazioni dei criteri interpretativi il rispetto dei modelli religiosi, sociali e giuridici emersi a Medina, sui quali esisteva un consenso unanime (ijmāʿ) dei colti della città stessa. Rispetto agli hanafiti attribuivano maggiore importanza alla tradizione, ragion per cui vengono annoverati tra la gente del ḥadith (aṣḥab al- ḥadith) e all’approvazione preferivano l’accomodamento (istiṣlaḥ), designato con un termine legato alla parola che designa il pubblico interesse (maṣlaḥa).

La scuola giuridica malikita, un tempo diffusa anche in Sicilia e in al-Andalus, è quella decisamente prevalente oggi in tutto il Nordafrica.

3. Scuola shafi’ita

La scuola shafi’ita (diffusa in Indonesia, Siria e Africa orientale) occupa una posizione intermedia tra le due precedenti.

La scuola shafi’ita deriva il suo nome da Muhammad ibn Idrīs al-Shāfiʿī, nato nel 767 ad Ascalona (Palestina), cresciuto alla Mecca e sepolto al Cairo nel 820, il cui scopo fu quello di tracciare un sistema giuridico unificato su basi religiose che ricomprendesse una gerarchia delle fonti esplicita. Membro della tribù dei Banu Quraysh, visse in contatto con le tribù beduine: cosa che gli permise di approfondire le proprie conoscenze della poesia e della lingua araba. Studiò giurisprudenza islamica a Medina e proseguì gli studi a Baghdad, dove divenne anche edotto della scuola hanafita. Non fondò personalmente la scuola shafi’ita, che fu opera dunque dei suoi discepoli. La sua metodologia fu adottata anche dalle altre scuole di diritto islamico.

Riteneva che le fonti primarie (usul) del diritto musulmano fossero:

– il Corano;

– i detti e fatti del Profeta (hadīth) facenti parte della Sunna;

–  il consenso, ijmāʿ, raggiunto fra tutti i dotti della comunità (umma);

– l’analogia o ragionamento analogico (qiyas), che riconosce una minima indipendenza dell’intelligenza umana nello sforzo di adattare le norme contenute nelle fonti primarie alla realtà variabile della società.

Grazie a lui hadīth e sunna del Profeta divennero l’autorità primaria nell’interpretazione delle ingiunzioni coraniche. Hadīth e sunna, secondo al-Shafi’i, sono più importanti del qiyas (analogia) e sono seguite in importanza dall’ijmā‘ (consenso) come base legittima della legge.

Le radici della giurisprudenza – Questi quattro elementi tutti insieme costituiscono gli usul al-fiqh (radici della giurisprudenza), cioè la base sistematica della legge. Definendo valide tutte e quattro le fonti del diritto, la scuola shafiʿita pose precise restrizioni al ragionamento analogico, imponendo ad essio una maggior aderenza alle norme di legge tramandate.

4. Scuola hanbalita

Infine, la scuola hanbalita (la più tradizionalista diffusa in Arabia Saudita) segue quella  shafi’ita per quanto riguarda il ragionamento giuridico, ma esige un rispetto stretto della sunna e strettissimo del Corano; la sua importanza divenne rilevante nel XX secolo, quando si generò una comunione d’intenti tra gli hanbaliti e il movimento dei wahhabiti, tuttora dominante in Arabia Saudita.

Il hanbalismo è stato fondato da Ahmad ibn Hanbal (Baghdad, 780-855), il quale si opponeva in modo radicale a qualunque forma di intromissione della ragione umana – ritenendola arbitrariamente soggettiva – nell’interpretazione delle due fonti primarie dell’Islam, Corano e Sunna. Restrinse l’uso del ragionamento analogico a casi eccezionali e respinse quasi del tutto l’istiḥsan e l’istiṣlaḥ.

I suoi epigoni – fra cui si ricordano in particolare Ibn Taymiyya e Ibn Qayyim al-Jawziyya – accentuarono quella che era inizialmente un’intransigenza tecnica e morale, traducendola in uno stile di vita severo e finanche ascetico (al hanbalismo appartenne uno dei dotti che formarono la Sunna, Abu Dawud al-Sijistani e il fondatore della Qādiriyya, tuttora la più diffusa confraternita mistica – tariqa – islamica: ʿAbd al-Qādir al-Gīlānī).

Tutti, a diverso titolo, furono caratterizzati da un coerente rifiuto dell’intellettualismo teologico.

Tra i più recenti hanbaliti va infine annoverato Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhāb (XVIII secolo), fondatore del wahhabismo, che ispirò il movimento che s’impadronì delle regioni peninsulari arabe e che contribuì non poco alla formazione della moderna Arabia Saudita.

Le quattro scuole islamiche ortodosse operarono l’estensione del diritto sacro con una certa libertà fino alla caduta della dinastia degli Abbàsidi (avvenuta nel 1258, con la conquista mongola di Bagdad). A partire da quella data non furono più possibili interpretazioni estensive: come si soleva dire, venne chiusa la “porta dello sforzo”. Per i secoli successivi il diritto islamico restò immutabile, anche se eterogeneo.

Poiché queste sono tutte ortodosse e poiché il giudice musulmano era unico e non teneva registrazioni dei casi decisi, il soggetto di diritto islamico poteva passare da un rito all’altro senza alcuna formalità né definitività. Ciò non è invece possibile per le eresie e le sette. Tra queste ricordiamo il sufismo, ponte tra il monachesimo orientale e il cenobitismo occidentale, e i wahhabiti, rigidamente conservatori, la cui potenza è andata crescendo nei tempi moderni. Essi controllano oggi le città sante e ampie zone dell’Arabia.

La superiorità dell’elemento religioso su quello giuridico comporta la soggezione del credente in quanto tale al diritto islamico, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato con un diverso sistema giuridico. E’ questa dissociazione che ha permesso alla conquista araba di affiancare il suo diritto a quello preesistente su un certo territorio, ovviando così a molte carenze del diritto islamico. Esempi di questa co-vigenza di ordinamenti sono la penisola iberica e il subcontinente indiano.La pluralità di ordinamenti non intaccava così l’unità formale del diritto islamico.

Bergstrasser ha individuato tre settori con differenti gradi di rigidezza:

1) le norme relative ai riti, alla famiglia e all’eredità sono le più legate ai precetti sacri;

2) le norme di diritto pubblico sono svincolate dai precetti sacri e possono essere addirittura considerate fuori dalla nozione islamica di diritto sacro;

3) le norme relative al diritto dell’economia (specie del diritto commerciale) si trovano a metà strada tra le altre due.

Quello che nel diritto europeo si chiama diritto pubblico non fa parte del diritto islamico in senso stretto (fikh). Anche se i primi contrasti tra musulmani furono di natura politica e generarono la grande divisione tra sunniti e sciiti, i problemi teorici dello Stato e della politica vennero affrontati quando lo Stato era già consolidato.

Anche il diritto pubblico islamico è ramificato, ricco di contrastanti opinioni. L’apparizione di trattati di diritto pubblico è tarda e coincide con la decadenza del califfato nel V secolo dell’ègira. Infatti Maometto morì prima di poter codificare le norme per la gestione dello Stato islamico, che poté essere così amministrato con la massima flessibilità. Questo era indispensabile ad uno Stato che conosceva una continua espansione fondata sulla guerra.

Il diritto penale non presenta una distinzione netta tra peccato e reato, dato il carattere religioso dell’intero sistema giuridico. Di conseguenza, il diritto penale fa la sua apparizione come disciplina relativamente autonoma solo verso il XII secolo dell’ègira.

BIBLIOGRAFIA

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http://www.filosofiacomparata.org

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