Sigmund Freud – Lutto e melanconia (1915)

 

Sigmund Freud, Lutto e melanconia (in Metapsicologia), Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Caducità, in Opere, 1915-1917, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976.

Dopo che ci siamo avvalsi del sogno come normale prototipo dei disturbi psichici narcisistici [als Normalvorbild der narzißtischen Seelenstörungen], vogliamo tentare [wollen wir den Versuch machen] di chiarire l’essenza [Wesen] della melanconia confrontandola con il normale affetto del lutto. Questa volta però dobbiamo fare un’ammissione preliminare che ci ponga al riparo dal rischio di esagerare il valore delle nostre conclusioni. La melanconia, la cui determinazione concettuale [Begriffbestimmung] risulta oscillante perfino nella psichiatria descrittiva, si presenta in forme cliniche differenti, la cui riunione in vista dell’unità non appare certa [deren Zusammenfassung zur Einheit nicht gesichert scheint]; inoltre, alcune di queste forme fanno pensare più ad affezioni di tipo somatico che psicogeno. Il nostro materiale, a prescindere dalle impressioni cui ogni osservatore può accedere liberamente, si limita a un piccolo numero di casi la cui natura psicogena non poteva esser messa in dubbio. Lasceremo quindi cadere fin dall’inizio ogni pretesa [Anspruch] di universale validità per le nostre conclusioni, e ci consoleremo col pensiero che, dati gli strumenti di indagine di cui disponiamo attualmente, assai difficilmente potremmo scoprire qualcosa che non sia tipico, se non di un’intera classe, almeno di un piccolo gruppo di disturbi.
L’accostamento del lutto e della melanconia pare giustificato dal quadro d’insieme di questi due stati. Anche le loro cause occasionali derivanti dalle influenze dell’ambiente, se e quando ci è dato di discernerle, sono le stesse. Il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via. La stessa situazione produce in alcuni individui – nei quali sospettiamo perciò la presenza di una disposizione patologica – la melanconia invece del lutto. È peraltro assai rimarchevole il fatto che nonostante il lutto implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita, non ci passa mai per la mente di considerarlo uno stato patologico e di affidare il soggetto che ne è afflitto al trattamento del medico. Confidiamo che il lutto verrà superato dopo un certo periodo di tempo e riteniamo inopportuna o addirittura dannosa qualsiasi interferenza.
La melanconia è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno [Aufhebung] dell’interesse per il mondo esterno, dalla perdita [Verlust] della capacità di amare, dall’inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell’attesa [Erwartung] delirante di una punizione [Strafe]. Questo quadro guadagna in intelligibilità se consideriamo che il lutto presenta gli stessi tratti [dieselben Züge], ad eccezione di uno [einzigen]; il disturbo del senso di sé va per la sua strada [die Störung des Selbstgefühls fällt bei ihr weg]. Ma per il resto è lo stesso. Il lutto profondo, ossia la reazione alla perdita di una persona amata, implica lo stesso doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno – fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c’è più -, la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria. Comprendiamo facilmente che questa inibizione e limitazione dell’Io esprime una dedizione esclusiva al lutto che non lascia spazio ad altri propositi e interessi. In verità questo atteggiamento non ci appare patologico soltanto perché lo sappiamo spiegare così bene.
Parimenti appropriato riterremo il raffronto che qualifica lo stato d’animo del lutto come “doloroso”. La sua legittimazione ci risulterà presumibilmente più chiara quando saremo in grado di caratterizzare il dolore dal punto di vista economico.
Orbene, in cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? Non credo di forzare le cose se lo descrivo nel modo seguente: l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all’oggetto, consentita dall’instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio. La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può esser realizzato immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d’investimento; nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata. Tutti i ricordi e le aspettative con riferimento ai quali la libido era legata all’oggetto vengono evocati e sovrainvestiti uno a uno, e il distacco della libido si effettua in relazione a ciascuno di essi. Non è affatto facile indicare con argomentazioni di tipo economico perché tale compromesso con cui viene realizzato poco per volta il comando della realtà risulti così straordinariamente doloroso. Ed è degno di nota che questo dispiacere doloroso ci appaia assolutamente ovvio. Comunque, una volta portato a termine i1 lavoro del lutto, l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito.
Proviamo ora ad applicare alla melanconia ciò che abbiamo appreso a proposito del lutto. In una serie di casi è evidente che anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l’oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d’amore [als Liebesobjekt] (è il caso, per esempio, di una sposa abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all’ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche il malato riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto. Quest’ultimo caso potrebbe presentarsi altresì quando il paziente è consapevole della perdita che ha provocato la sua melanconia nel senso che egli sa quando [wen] ma non cosa [was] è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale [Objektverlust] sottratta alla coscienza , a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio.
Per il lutto abbiamo scoperto che l’inibizione e la mancanza d’interesse si spiegano compiutamente con il lavoro del lutto da cui l’Io è assorbito. La perdita inconsapevole [der unbekannte Verlust] che si verifica nella melanconia darà luogo a un analogo lavoro interiore, che diventerà perciò responsabile dell’inibizione melanconica. Solo che l’inibizione melanconica suscita in noi l’impressione di un enigma [einen rätselhaften Eindruck macht]  perché non riusciamo a vedere da cosa l’ammalato sia assorbito in maniera così totale. Il melanconico ci presenta un’altra caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del suo senso dell’Io [seines Ichgefühls], un enorme impoverimento dell’Io [Ichverharmung] . Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia lo è l’Io stesso. Il malato ci descrive il suo Io come assolutamente indegno [nichtswürdig], incapace di fare alcunché e moralmente spregevole; si rimprovera, si vilipende e si aspetta ripudio e punizione [erwartet Austoßung und Strafe]. Si svilisce di fronte a tutti e commisera a uno a uno i suoi cari perché sono legati a lui, una persona così indegna [so unwürdige]. Non reputa che in lui sia avvenuto un mutamento, e anzi estende al passato la sua autocritica affermando di non essere mai stato migliore. Il quadro di questo delirio d’inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita.
Sarebbe parimenti infruttuoso dal punto di vista scientifico e da quello terapeutico se ci mettessimo a contraddire l’ammalato che rivolge tali accuse [Anklagen] contro il proprio Io. In qualche modo egli deve pure avere ragione, e descriverci qualcosa che è come a lui appare. Alcune delle sue affermazioni dobbiamo infatti confermarle senza riserve. Egli è davvero così privo di interessi e così incapace di amare e di agire come dice. Ma ciò, com’è noto, è secondario e rappresenta la conseguenza del lavoro interiore che consuma il suo Io, lavoro a noi sconosciuto ma che possiamo paragonare a quello del lutto. Egli ci sembra nel giusto anche quando muove a sé stesso alcune altre accuse; soltanto, rispetto ad altre persone non melanconiche, sembra che egli sia capace di cogliere il vero [die Wahrheit zu erfassen] con maggiore acutezza. Quando, al culmine della sua autocritica, egli si definisce un meschino, un egoista, uno sleale e un succube, la cui unica aspirazione è sempre stata quella di occultare le debolezze della propria natura, per quanto ne sappiamo può darsi che egli si sia avvicinato considerevolmente alla conoscenza di sé medesimo; e ci domandiamo solo perché ci si debba prima ammalare affinché tali verità siano accessibili [um solcher Wahrheit zugänglich zu sein]. Giacché è indubbio che se qualcuno giunge a una tale valutazione di sé e la manifesta di fronte al prossimo – una valutazione come quella che il principe Amleto applicava a sé e a tutti gli altri -, ebbene costui è malato, indipendentemente dal fatto che dica il vero o che sia più o meno ingiusto con sé stesso. D’altra parte non è difficile accorgersi che, stando al nostro giudizio, non vi è rispondenza fra il livello dell’autodenigrazione e il suo effettivo fondamento. Quando una donna si ammala di melanconia, anche se in passato è stata onesta, capace e scrupolosa, non parlerà meglio di sé medesima della donna che in effetti non vale nulla; anzi forse esistono per la prima maggiori probabilità di ammalarsi di melanconia che per la seconda, della quale noi stessi non sapremmo cosa dire di buono. Infine, non mancherà di colpirci il fatto che il melanconico non si comporta comunque in tutto e per tutto come un individuo normalmente contristato da rimorsi e autorimproveri. Il senso di vergogna di fronte agli altri, che caratterizza probabilmente più di ogni altra cosa quest’ultima situazione, manca nel melanconico o quantomeno non è appariscente. Si potrebbe quasi mettere in rilievo nel melanconico la caratteristica opposta di un assillante bisogno di comunicare, che trova soddisfacimento nel mettere a nudo il proprio Io.
Non è dunque essenziale stabilire se il melanconico, nel suo tormentoso autodenigrarsi, abbia ragione, nel senso che la sua critica converge con il giudizio degli altri. Il vero punto è che egli descrive certamente con esattezza la propria situazione psicologica. Ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo. Ci troviamo comunque di fronte a una contraddizione che ci pone un enigma difficilmente risolvibile. L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io.
Prima di addentrarci in questa contraddizione, ci sia consentito prendere in esame per un momento ciò che la sofferenza del melanconico ci permette di arguire sulla costituzione dell’Io umano. Nel melanconico vediamo che una parte dell’Io si contrappone all’altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l’istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell’Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono dei motivi validi per separare questa istanza dal resto dell’Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l’istanza comunemente definita coscienza morale; la annovereremo, insieme alla censura della coscienza e all’esame di realtà, fra le grandi istituzioni dell’Io e troveremo anche il modo di dimostrare che può ammalarsi di per sé. Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre nmostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l’impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato.
La contraddizione che abbiamo prima enunciato [alla fine del penultimo capoverso] può esser chiarita da un’osservazione che peraltro non è difficile fare. Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si può sottrarre all’impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente a un’altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare. E ogniqualvolta procediamo a un’indagine fattuale, questa supposizione viene confermata. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti a un oggetto d’amore – e da questo poi distolti e riversati sull’Io del malato – abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.
La donna che commisera fortemente il proprio marito per il fatto che costui è legato a una moglie così incapace, intende in realtà accusare il marito di incapacità, indipendentemente dal significato che a tale incapacità possa essere attribuito. Non c’è da meravigliarsi troppo se fra i rimproveri che si rovescia addosso il malato sono disseminati alcuni autentici autorimproveri; essi possono imporsi perché servono a occultare gli altri, e a rendere impossibile la comprensione di come stanno effettivamente le cose; del resto, anch’essi derivano dai pro e dai contro del conflitto amoroso che ha portato alla perdita dell’oggetto amato. Anche il comportamento degli ammalati diventa ora più comprensibile. Le loro “lamentele” sono “lagnanze”, in accordo con l’antico significato della parola [Klagen, in origine “lamentele” funebri, ha assunto poi il significato di “lagnanze” o “accuse”: da cui il termine analogo Anklagen], non hanno pudore né cercano di nascondersi poiché tutto ciò che di umiliante dicono di sé stessi si riferisce in realtà a qualcun altro; e sono ben lungi dal dimostrare, nei confronti del proprio ambiente, quella docilità e sottomissione che sarebbe l’unico atteggiamento adeguato per persone così indegne. Al contrario sono individui estremamente molesti, che si comportano sempre come se fossero offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia. Tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica.
Non è difficile ricostruire questo processo. All’inizio ebbe luogo una scelta oggettuale, un legame della libido a una determinata persona; sotto l’influsso di una reale mortificazione o di una delusione  [einer realen Kränkung oder Enttäuschung] subita dalla persona amata, questa relazione oggettuale fu gravemente turbata. L’esito non fu già quello normale, ossia il ritiro della libido da questo oggetto e il suo spostamento su un nuovo oggetto, ma fu diverso e tale da richiedere, a quanto sembra, più condizioni per potersi produrre. L’investimento oggettuale si dimostrò scarsamente resistente e fu sospeso, ma la libido divenuta libera non fu spostata su un altro oggetto, bensì riportata nell’Io. Qui non trovò però un impiego qualsiasi, ma fu utilizzata per instaurare una identificazione dell’Io con l’oggetto abbandonato. L’ombra [Der Schatten] dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté esser giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto fra l’Io e la persona amata in un dissidio fra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione. Alcuni dei presupposti e dei risultati di un processo di questo genere sono immediatamente individuabili. Se da un lato dev’essere stata presente una forte fissazione all’oggetto d’amore, d’altro lato, invece, l’investimento oggettuale deve aver avuto scarse capacità di resistenza. Secondo una calzante osservazione di Otto Rank questa contraddizione sembra rinviare al fatto che la scelta oggettuale si è attuata su basi narcisistiche, per cui l’investimento oggettuale può regredire al narcisismo se gli si fanno innanzi delle difficoltà. L’identificazione narcisistica con l’oggetto si trasforma poi in un sostituto dell’investimento amoroso; l’esito di ciò è che, nonostante il conflitto con la persona amata, non è necessario abbandonare la relazione d’amore. Una sostituzione di questo genere dell’amore oggettuale con un’identificazione costituisce un importante meccanismo delle affezioni narcisistiche; Karl Landauer ha potuto scoprirlo recentemente nel processo di guarigione di un caso di schizofrenia. Esso corrisponde ovviamente alla regressione da un tipo di scelta oggettuale al narcisismo originario. Abbiamo dimostrato altrove che l’identificazione è la fase preliminare della scelta oggettuale, e che essa è il primo modo, peraltro ambivalente nella sua espressione, con cui l’Io evidenzia un oggetto. L’Io vorrebbe incorporare in sé tale oggetto e, data la fase orale o cannibalesca della propria evoluzione libidica, vorrebbe incorporarlo divorandolo. Abraham è certamente nel giusto quando ricorre a questo nesso per spiegare il rifiuto di nutrirsi che compare nelle forme gravi di melanconia.
La conclusione alla quale ci obbligherebbe la teoria – e cioè che la disposizione (o parte di essa) ad ammalarsi di melanconia dipende dalla preponderanza del tipo narcisistico di scelta oggettuale – purtroppo non è ancora suscettibile di conferma sperimentale. Nelle proposizioni introduttive di questo saggio ho riconosciuto che il materiale empirico su cui si basa il mio studio non è sufficiente per le nostre esigenze. Se ci fosse lecito supporre una concordanza dell’osservazione con le nostre deduzioni, non esiteremmo a includere, nella nostra caratterizzazione della melanconia, la regressione dall’investimento oggettuale alla fase orale della libido (fase che appartiene ancora al narcisismo). Le identificazioni con l’oggetto non sono affatto rare neppure nelle nevrosi di traslazione; anzi sono un meccanismo ben noto della formazione dei sintomi, specialmente nell’isteria. Tuttavia, la differenza fra l’identificazione narcisistica e quella isterica può essere ravvisata in questo: mentre nella prima l’investimento oggettuale viene abbandonato, nella seconda esso permane e produce un effetto che abitualmente resta confinato a determinate azioni e innervazioni singole. In ogni caso, anche nelle nevrosi di traslazione l’identificazione esprime una comunanza che può significare amore. L’identificazione narcisistica è la più primitiva e ci prepara a comprendere l’identificazione isterica, meno profondamente studiata.

La melanconia, dunque, deriva una parte delle proprie caratteristiche dal lutto e l’altra parte dalla regressione che procede dalla scelta oggettuale di tipo narcisistico al narcisismo. Da un lato la melanconia è, come il lutto, una reazione alla perdita effettiva dell’oggetto d’amore, ma, al di là di questo, essa è ancorata a una condizione che nel lutto normale non compare, o, quando compare, lo trasforma in lutto patologico: la perdita dell’oggetto d’amore diventa un’ottima occasione per far valere e mettere in rilievo l’ambivalenza insita nella relazione amorosa. Laddove è presente una disposizione alla nevrosi ossessiva il conflitto dovuto all’ambivalenza conferisce al lutto una configurazione patologica e lo costringe a manifestarsi sotto forma di auto-rimproveri secondo i quali il soggetto è responsabile – ossia ha voluto – la perdita dell’oggetto d’amore. Questi stati di depressione ossessiva susseguenti alla morte di una persona amata ci mostrano ciò di cui è capace di per sé il conflitto dell’ambivalenza, anche quando non è associato al ritiro regressivo della libido. Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso di una perdita dovuta alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di aver subito un torto, di delusione, che o generano un contmsto fra l’amore e l’odio o possono rafforzare un’ambivalenza già esistente. Fra i presupposti della melanconia non va trascurato questo conflitto dovuto all’ambivalenza, di origine ora piu’ reahstica, ora piu’ determinata da fattori costituzionali. Quando l’amore per un oggetto si è rifugiato nell’identificazione narcisistica – ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all’oggetto stesso – accade che l’odio si metta all’opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento. L’autotormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa, proprio come il fenomeno corrispondente della nevrosi ossessiva, il soddisfacimento di tendenze sadiche o di odio; tali tendenze si riferiscono a un determinato oggetto e hanno trovato il modo di applicarsi alla persona stessa del soggetto nel modo che abbiamo enunciato. Comunque, in entrambe queste affezioni, i malati riescono abitualmente a prendersi le loro rivincite (per la via indiretta dell’autopunizione) sugli oggetti originari, e a tormentare i loro cari per il tramite della malattia nella quale si sono rifugiati onde non dover manifestare direttamente la propria ostilità. Va detto infatti che la persona che ha suscitato il perturbamento emotivo del malato, e in relazione alla quale è orientata la sua sofferenza, si trova in generale fra coloro che a lui sono più vicini. In tal modo l’investimento amoroso del melanconico per il suo oggetto incorre in un duplice destino: una parte regredisce all’identificazione mentre l’altra parte è riportata, sotto l’influsso del conflitto d’ambivalenza, fino allo stadio del sadismo che a quel conflitto è più vicino.
Solo questo sadismo ci spiega l’enigmatica inclinazione al suicidio che rende così interessante la melanconia, e la fa diventare così pericolosa. Tanto enorme è l’amore che l’lo porta a sé stesso, amore nel quale abbiamo individuato la condizione originaria da cui deriva la vita pulsionale, e talmente spropositato è l’importo di libido narcisistica che vediamo sprigionarsi nell’angoscia di fronte a tutto ciò che minaccia l’esistenza dell’Io, che non riusciamo a capacitarci che questo Io possa consentire alla propria distruzione. È ben vero, e lo sappiamo da tempo, che non esiste nevrotico i cui propositi suicidi non si siano determinati a partire da impulsi omicidi diretti su qualche altra persona; tuttavia non riusciamo a capire attraverso quale giuoco di forze tale proposito possa tradursi in atto. Ebbene, l’analisi della melanconia ci insegna che l’Io può uccidersi solo quando, grazie al ritorno dell’investimento oggettuale, riesce a trattare sé stesso come un oggetto, quando può dirigere contro di sé l’ostilità che riguarda un oggetto e che rappresenta la reazione originaria dell’Io rispetto agli oggetti del mondo esterno. Così, nella regressione che parte da una scelta oggettuale di tipo narcisistico è avvenuta certamente una rinuncia all’oggetto, il quale si è rivelato però più forte dell’lo stesso. Nelle due situazioni opposte dell’innamoramento più intenso e del suicidio l’Io è sopraffatto dall’oggetto, seppure in guise completamente differenti.
Sembra inoltre plausibile far risalire una caratteristica particolarmente vistosa della melanconia – il rilievo che assume in essa l’angoscia di diventare poveri – all’erotismo anale, avulso dal suo contesto e alterato per via regressiva.
La melanconia ci pone di fronte ad altri interrogativi ancora, la cui risposta in parte ci sfugge. Essa condivide con il lutto la peculiarità di risolversi dopo un certo periodo di tempo, senza lasciare dietro di sé alterazioni consistenti e accertabili. A proposito del lutto abbiamo scoperto che è necessario un certo lasso di tempo affinché l’imperativo dell’esame di realtà possa imporsi in tutto e per tutto; e che, quando quest’opera è terminata, l’Io può ridisporre della libido liberatasi dall’oggetto perduto. Possiamo suppore che nella melanconia l’Io sia occupato in un lavoro analogo, anche se, né in questo caso né in quello del lutto, riusciamo a comprendere il significato economico di tali eventi. L’insonnia tipica della melanconia testimonia la rigidità di questa malattia, l’impossibilità di effettuare quel ritiro generalizzato degli investimenti che è necessario affinché si instauri il sonno. Il complesso melanconico si comporta come una ferita aperta che attira su di sé da tutte le parti energie di investimento (energie che nelle nevrosi di traslazione abbiamo chiamato “controinvestimenti”) e svuota l’Io fino all’impoverimento totale; tale complesso può facilmente dimostrarsi refrattario al desiderio di dormire proprio dell’Io.
Un fattore presumibilmente somatico, e di cui non è possibile fornire una spiegazione psicogenetica, si manifesta nella regolare attenuazione dello stato melanconico nelle ore serali. In relazione a queste considerazioni si pone il problema se una perdita dell’Io senza alcun riguardo per l’oggetto (una mera ingiuria narcisistica subita dall’Io) possa  esser  sufficiente a determinare  il quadro  della melanconia, e se un impoverimento della libido dell’Io, dovuto direttamente a cause tossiche, non possa dar luogo a determinate forme di questa malattia.

La caratteristica più singolare della melanconia, e quella che più di tutte necessita di una spiegazione, è la sua tendenza a convertirsi in mania, stato ad essa opposto dal punto di vista dei sintomi. Com’è noto, non ogni forma di melanconia va incontro a un destino siffatto. Alcuni casi sono soggetti a periodiche recidive, e durante gli intervalli o i sintomi della mania non compaiono affatto o sono appena accennati. In altri casi si manifesta invece quel regolare alternarsi di fasi melanconiche e fasi maniacali che ha fatto pensare a una follia ciclica. Saremmo tentati di non prendere in considerazione questi casi sotto il profilo psicogeno; sennonché la psicoanalisi è riuscita a risolvere o a influenzare terapeuticamente proprio parecchie forme morbose di questo tipo. Dunque non solo ci è consentito, ma addirittura ci viene imposto di estendere la spiegazione analitica della melanconia anche alla mania.


Non posso promettere che questo tentativo sarà completamente soddisfacente. È anzi difficile che esso possa spingersi oltre un primo orientamento. Disponiamo però di due punti d’appoggio, di cui il primo è un’impressione psicoanalitica, mentre il secondo, possiamo ben dirlo, è un’esperienza universale di natura economica. L’impressione, della quale hanno già parlato parecchi psicoanalisti, è che la mania non ha un contenuto diverso dalla melanconia, che entrambe le affezioni lottano contro il medesimo “complesso”; presumibilmente nella melanconia l’Io ne è stato sopraffatto, mentre nella mania riesce a padroneggiarlo o a metterlo da parte. L’altro punto d’appoggio ci è fornito dall’esperienza che in tutti gli stati come la gioia, il giubilo, il trionfo – che costituiscono per noi il normale prototipo della mania – si ravvisa lo stesso fattore determinante di tipo economico. In questi casi avviene qualcosa che fa sì che un grande spiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo, talché questa energia è resa disponibile per molteplici impieghi e possibilità di scarica. Ciò si verifica ad esempio quando un povero diavolo è sollevato improvvisamente – perché gli piove addosso una grande quantità di denaro – dalla cronica preoccupazione per il pane quotidiano; o quando una lotta lunga e difficile è coronata infine dal successo; o quando, d’un tratto, riusciamo a liberarci da una pesante costrizione o da una posizione falsa in cui avevamo indugiato a lungo; e così di seguito. Tutte queste situazioni sono caratterizzate da un umore allegro, dai segni di scarica dati da un affetto gioioso e da un’accresciuta disponibilità a compiere ogni sorta di atti proprio come nella mania, e in assoluto contrasto con la depressione e l’inibizione tipiche della melanconia. Possiamo azzardarci a dire che la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l’Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria. Anche l’ubriachezza, che appartiene al medesimo ordine di fenomeni – sempre che si tratti di un’ebbrezza ilare – può essere valutata allo stesso modo. Presumibilmente in questo caso avviene una sospensione, ottenuta per vie tossiche, del dispendio di energie rimoventi. I profani sono inclini a supporre che in situazioni maniacali siffatte si ha tanta voglia di muoversi e di fare perché ci si sente “proprio a posto”. Questo falso nesso va ovviamente dissolto. Il fatto è che nella vita psichica è stata realizzata la condizione di natura economica di cui abbiamo parlato; perciò si è di umore così gaio da un lato, e così disinibiti nel fare dall’altro.
Dall’accostamento di entrambe le indicazioni risulta quanto segue: nella mania l’Io dev’essere riuscito a superare la perdita dell’oggetto (o il lutto per tale perdita o magari l’oggetto in sé), e ora tutto l’ammontare di controinvestimenti che la dolorosa sofferenza della melanconia aveva attinto dall’Io per attrarlo e vincolarlo a sé si rende nuovamente disponibile. Il maniaco ci dimostra inequivocabilmente di essersi liberato dell’oggetto che lo aveva fatto soffrire anche perché si getta come un affamato alla ricerca di nuovi investimenti oggettuali.
Questa spiegazione, pur sembrando attendibile, è innanzitutto troppo indeterminata; in secondo luogo suscita un numero di interrogativi e dubbi maggiore di quanti siamo in grado di risolverne. Non intendiamo sottrarci alla discussione di questi ultimi anche se non possiamo attenderci di trovare con ciò la strada della chiarezza.
Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell’oggetto e, finché dura, assorbe anch’esso tutte le energie dell’Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all’instaurarsi di una fase di trionfo? Reputo impossibile dare una risposta immediata a questa obiezione. Grazie ad essa ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti economici con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame della libido con l’oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l’oggetto non esiste più, e l’lo, quasi fosse posto dinanzi all’alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere – dalla somma dei soddisfacimenti narcisistici – a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l’oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest’opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita.
Ci alletta l’idea di trovare il modo di descrivere il lavoro della melanconia partendo da questa presunzione sul lavoro del lutto. Ma ci troviamo immediatamente di fronte a una perplessità. Fino a questo momento, trattando della melanconia, non abbiamo praticamente preso in considerazione il punto di vista topico né ci siamo domandati in quale dei sistemi psichici si svolga il lavoro della melanconia. Quale parte dei processi psichici di questa malattia si svolge ancora sul terreno degli inconsci investimenti d’oggetto a cui si è rinunciato, e quale parte si effettua invece sul terreno dei loro sostituti per identificazione, che albergano nell’Io?

Potremmo rispondere subito e con facilità che “la rappresentazione inconscia (cosale) dell’oggetto  viene abbandonata dalla libido”. In realtà, tuttavia, questa rappresentazione è adombrata da innumerevoli impressioni particolari (o da loro tracce inconsce), e inoltre l’attuarsi del processo di sottrazione libidica non avviene in un colpo solo, ma certamente, come nel lutto, attraverso un lungo e graduale processo. Se questo cominci simultaneamente in più punti o segua invece un ordine prestabilito qualsivoglia, non è facile dirlo. Nelle analisi si può osservare frequentemente che ora viene attivato questo ricordo, ora quello, e che le lamentele del paziente, sempre le stesse e stancanti nella loro monotonia, si sviluppano in realtà ogni volta da un diverso fondamento inconscio. Quando l’oggetto non ha per l’Io un’importanza così grande, rafforzata da innumerevoli e svariate connessioni, la sua perdita non si rivelerà idonea a sviluppare un lutto o una melanconia. Il graduale effettuarsi del distacco libidico è quindi un carattere che va attribuito sia al lutto sia alla melanconia; probabilmente esso trova un supporto nelle medesime circostanze di natura economica e si pone al servizio delle medesime tendenze.
Tuttavia, come abbiamo udito, la melanconia contiene qualcosa in più del normale lutto. Nella melanconia non è facile la relazione nei confronti dell’oggetto, che viene complicata dal conflitto dell’ambivalenza. L’ambivalenza può essere costituzionale, cioè propria di ogni relazione amorosa vissuta dall’Io, o può invece svilupparsi precisamente da quelle esperienze che implicano una minaccia di perdere l’oggetto. Perciò i motivi occasionali che provocano la melanconia possono estendersi in un ambito assai più vasto che non quelli del lutto, il quale di norma trae origine esclusivamente dalla perdita effettiva dell’oggetto, ovverosia dalla sua morte. Nella melanconia si intessono infatti, intorno all’oggetto, innumerevoli conflitti singoli nei quali infuriano l’uno contro l’altro l’odio e l’amore, l’uno inteso a svincolare la libido dall’oggetto, l’altro inteso a mantenere questa posizione libidica contro l’assalto che le viene mosso. Questi singoli conflitti non possiamo localizzarli in alcun altro sistema se non nell’inc, il regno delle tracce mnestiche delle cose (in antitesi con gli investimenti verbali). Proprio in questo sistema si svolgono anche i tentativi di distacco libidico propri del lutto. Ma a proposito di quest’ultimo non esiste alcun impedimento a che tali processi procedano normalmente attraverso il Prec per giungere fino alla coscienza. Questa via è invece sbarrata per il lavoro della melanconia, forse per una pluralità di cause o per l’azione congiunta che esse esercitano. L’ambivalenza costituzionale appartiene in sé e per sé al rimosso; gli eventi traumatici esperiti in relazione all’oggetto possono aver attivato altri elementi rimossi. In tal modo tutto ciò che si riferisce a questi conflitti di ambi valenza è sottratto alla coscienza fino a che non compare l’esito caratteristico della melanconia. Come sappiamo esso consiste nel fatto che l’investimento libidico minacciato abbandona finalmente l’oggetto, ma solo per ritirarsi e reinsediarsi nell’Io dal quale era stato esternato. Rifugiandosi nell’Io, l’amore si sottrae così alla dissoluzione. In seguito a questa regressione della libido il processo può diventare cosciente e si presenta al cospetto della coscienza come un conflitto fra una parte dell’Io e l’istanza critica.
Ciò che la coscienza viene a sapere del lavoro melanconico non è quindi l’elemento essenziale, e neppure quello al quale possiamo attribuire una capacità di porre termine alla sofferenza. Noi costatiamo che l’Io si svalorizza e infierisce crudelmente contro sé stesso, e non comprendiamo, come non lo comprende il malato, a qual fine tenda tutto ciò e come possa esser mutato. Possiamo tutt’al più attribuire una funzione di questo genere alla componente inconscia del lavoro melanconico poiché non è difficile rintracciare una analogia fondamentale fra quest’ultimo e il lavoro del lutto. Come il lutto induce l’Io a rinunciare all’oggetto dichiarandolo morto, e offrendo all’Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita, così ogni singolo conflitto d’ambivalenza allenta la fissazione libidica all’oggetto poiché lo denigra, lo svilisce e, in certo modo, lo distrugge. È possibile che il processo si concluda nell’inc, o dopo che la collera si è esaurita o dopo che l’oggetto è stato abbandonato perché privo di valore. Non sappiamo dire quale di queste due possibilità ponga fine invariabilmente, o con maggiore frequenza, alla melanconia e in che modo questa conclusione incida sull’ulteriore decorso del caso. Può darsi che l’Io provi la soddisfazione di sapersi migliore dell’oggetto, di potersi riconoscere come superiore ad esso.
Quand’anche fossimo disposti ad accettare questa concezione del lavoro melanconico, essa non ci fornirebbe quel chiarimento che ci eravamo proposti di raggiungere fin dall’inizio. Ci aspettavamo di poter far derivare dall’ambivalenza che domina la melanconia la condizione economica che determina l’insorgere della mania quando la melanconia ha esaurito la sua fase; e tale aspettativa poteva trarre sostegno da analogie ricavate da diversi altri ambiti. Esiste tuttavia una circostanza di fatto di fronte alla quale tale ipotesi deve recedere. Dei tre presupposti della melanconia – perdita dell’oggetto, ambivalenza e regressione della libido nell’Io – i primi due li ritroviamo nei rimproveri ossessivi susseguenti a casi di morte. In questi rimproveri l’ambivalenza rappresenta indubitabilmente la forza motrice del conflitto e l’osservazione permette di costatare che quando esso si risolve non resta nulla che faccia pensare al trionfo di una situazione maniacale. Siamo in tal modo rinviati al terzo presupposto della melanconia come all’unico fattore capace di incidere su ciò che viene dopo. Quell’accumulo di investimenti che dapprima è legato e poi diventa libero quando il lavoro melanconico si è concluso, consentendo lo svilupparsi della mania, deve essere in rapporto con la regressione libidica alla fase del narcisismo. Il conflitto all’interno dell’Io, che nella melanconia prende il posto della lotta riguardo all’oggetto deve agire come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato. Ma a questo punto sarà bene arrestarsi e rinviare la delucidazione ulteriore della mania a quando avremo acquisito una chiara visione della natura psicologica innanzitutto del dolore fisico, e poi del dolore psichico ad esso analogo. Comunque sappiamo già che l’interdipendenza reciproca degli intricati problemi della psiche ci costringe a lasciare incompiuta ogni singola indagine fino a che i risultati di una indagine diversa non riescono a venirle in aiuto.

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Categorie:F02- Sigmund Freud, I01- Psicologia e psicoanalisi

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